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Da Oriana Fallaci a Michela Murgia, com’è cambiata la narrazione del cancro

Gentile bastardo? Alieno? La malattia impronunciabile ha cambiato nome e approccio, il linguaggio del cancro è diventato un sapere collettivo

Pubblicato:09-02-2024 11:51
Ultimo aggiornamento:09-02-2024 12:02
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michela murgia_taglio capelli_tumore
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ROMA – “Guerrieri”, “una battaglia che non si vince mai” ha detto Giovanni Allevi dal palco di Sanremo dove ha rotto il silenzio dopo le pesanti cure per il mieloma che lo ha colpito. Ma accanto a questi termini che hanno subito suscitato attenzione dalle associazioni dei pazienti oncologici, ha anche parlato di “doni” e di “essenziale“. Quella cultura della resistenza e per taluni della resilienza che la malattia sta insegnando alla società. C’è un lessico profondamente mutato negli anni su come chiamare la malattia impronunciabile, quella che nelle case venti anni fa era ‘il brutto male’: innominato, spettrale, dai contorni indefiniti.

“Sento che ho una creatura, un animale dentro”, diceva Oriana Fallaci quando l’ultima battaglia di cui scrivere non era più in Vietnam o nella Guerra del Golfo, ma nel suo esile corpo dove un cancro cresceva indisturbato. L’aveva sentito con una mano e aveva rimandato la visita. L’aveva forse sempre saputo, come una predestinazione, cosi scriveva. Il tumore per Oriana che muore nel 2006 è ‘un bastardo, un alieno, un nemico, è guerra’. “Maledetto bastardo’. Oh, come lo odiavo. Continuavo a insultarlo. Non osare di ritornare, sai. Hai lasciato qualche bambino dentro di me? Ti ucciderò…Ti ucciderò… Tu non vincerai ‘ Quei dottori… non potevano credere ai loro occhi”. Queste le sue parole quando la giornalista volle vedere nell’incredulità dei medici il tumore che le era stato asportato.

Un salto di quasi 20 anni e il cancro metastatico che la sta uccidendo diventa per la scrittrice Michela Murgia, nella lunga intervista confessione al Corriere della Sera nel 2023, la “malattia molto gentile” perchè prolifera indisturbata mentre la vita scorre all’apparenza come sempre. “Il cancro è un complice della mia complessità, non un nemico da distruggere. Non posso e non voglio- dice poco prima di morire- fare guerra al mio corpo, a me stessa. Il tumore è uno dei prezzi che puoi pagare per essere speciale. Non lo chiamerei mai il maledetto, o l’alieno”.


In questo salto nella storia, che è poi una nuova lettura dello stesso concetto di salute e forse di morte, c’è il lavoro instancabile delle associazioni di pazienti che con la loro opera di advocacy hanno cambiato la cultura sulla malattia oncologica: dallo stigma impronunciabile, alla decostruzione della retorica del ‘fiocco rosa’, per il tumore del seno, fino all’ultima rivoluzione della guarigione sancita dalla legge sul diritto all’oblio.

I pazienti oggi sembrano preferire un’altra narrazione, forse meno eroica ma anche meno colpevolizzante, complice l’ingresso nel percorso di cura della psico-oncologia. E alla valorizzazione emotiva della malattia, basta pensare alla medicina narrativa o alle manifestazioni di sensibilizzazione, gare sportive, teatro terapia, si unisce anche una volontà coraggiosa di smontare la retorica e denominare la malattia per ciò che è: cancro, metastasi, stadio avanzato. Termini che i pazienti oggi utilizzano, padroneggiano e conoscono pienamente. Realismo senza epopea: è lo spirito ad esempio del ‘don’t pink for me’, una narrazione sempre più diffusa nelle associazioni delle donne con tumore del seno: basta fiocchi e ambasciatori in rosa, basta retorica edulcorata del cancro al seno come sempre curabile, quasi come se ne volesse sminuire la gravità. Da una parte il realismo, dall’altra la resilienza.

“Grazie cancro” come fosse stata un’esperienza di maturazione diventa il filo rosso di tante testimonianze, anche pubbliche e di vip. Ed ecco riassunto questo messaggio di positività nei libri verità come quello di Nadia Toffa ‘Fiorire d’inverno’ o l’autobiografia di Francesca Del Rosso ‘Wondy sono io. Come si diventa supereroi per guarire dal cancro’. E’ la capriola della resilienza che arriva un momento dopo che il cancro viene chiamato per nome, analizzato senza allegorie, senza metafore estreme. Non piace a tutti, però, questa lettura. Tanti pazienti sui social dove sfogano il loro dolore continuano a chiamarsi guerrieri, anche e soprattutto quando il tumore colpisce i bambini: sono guerrieri e sono eroi, quelli che, non a caso, i piccoli chiedono di incontrare nelle corsie dell’ospedale. E conquista quell’hashtag beffardo ‘Zittocancro’ di Dykadja Izidoro Paes recentemente scomparsa per un cancro del seno metastico triplo negativo che la colpisce quando ha appena 28 anni. Ad alcuni serve questo approccio ‘belligerante’ per affrontare le cure, per riprendersi il futuro. Guerrieri o resilienti la narrazione del cancro oggi ha un indubitabile elemento nuovo e importante: l’aiuto. E’ il risultato brillante di una nuova cultura della malattia che passa dall’isolamento alla rete, dalla solitudine all’empatia, dall’individuo al sociale. La malattia smentisce l’illuminazione di Nietzsche, che vedeva nel malato un solitario eroe, e non ha più i confini del solo ‘io’. E’ invece un noi: un sapere collettivo. “Bisogna lottare e vinceremo” aveva detto la giovane Carlotta Dessi, prima di spegnersi in una manciata di mesi a soli 35 anni. Torna sempre a quanto pare la lotta e la vittoria, una dialettica affievolita, ma mai estinta. Anche quando viene professata da una sedia a rotelle con il volto provato dalle cure, come nel caso della giornalista a Fuori Dal Coro a dicembre scorso. Lei promette vittoria e poi muore, ma nessuno potrà dire che questa è una guerra che lei ha perso. E’ ‘solo’ il capolavoro della resistenza. 

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