Aborto, la psicologa: “Trauma che crea disorganizzazione”
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8 marzo 2018
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ROMA – Se sono obiettrice di coscienza non posso nemmeno indirizzarti dai medici che possono aiutarti. Se sono obiettrice posso solo sperare che il cuore del tuo bambino smetta di battere prima dell’interruzione terapeutica di gravidanza. Questo e’ quello che e’ successo a Michela (nome di fantasia, ndr) che si e’ ritrovata sola, senza l’aiuto della ginecologa che la seguiva, nel momento in cui aveva un enorme bisogno di capire cosa fare.
“A maggio del 2016 ho scoperto di aspettare un bambino, io e il mio compagno eravamo felicissimi della notizia anche se non rientrava nelle nostre priorita’”. Comincia cosi’ il suo racconto. Dopo un distacco della placenta che la costringe al riposo e un prenatal safe con il quale “avevamo anche scongiurato alcune malattie genetiche, una notte ho iniziato a stare male con la pancia”. Michela spaventata decide di rivolgersi ad un pronto soccorso romano e li’ con un’ecografia scopre che “la gravidanza era in pericolo perche’ non c’era quasi piu’ liquido amniotico”.
“Dopo aver passato dieci ore e piu’ in ospedale e dopo una notte di pianti strazianti mi dimettono in dimissioni protette”, prosegue Michela, con il suggerimento di tornare la settimana successiva e “di bere molto per vedere se il liquido risaliva ma la dottoressa gia’ mi aveva preannunciato che non sarebbe andata avanti la gravidanza”. La sua ginecologa, contattata subito, le dice “che le sembrava assurdo attendere una settimana perche’ la diagnosi era chiara, era solo un allungare il mio dolore. Percio’ gia’ mi iniziava a parlare di interruzione sottolineando quanto fosse difficile pero’ in Italia e che lei pregava che il cuore cessasse da solo”. Dopo averla visitata e averle confermato che la scarsita’ di liquido amniotico non avrebbe permesso il proseguire della gravidanza, con un sms, la ginecologa “mi disse che non poteva aiutarmi in nessun modo perche’ era obiettrice di coscienza”. Insomma “dovevo cavarmela da sola e da sola scontrarmi con medici, pareri e diagnosi”.
Si rivolge ad un secondo nosocomio: “un posto agghiacciante sotto il reparto di maternita’ e ginecologia, un sottoscala come se fosse necessario tenere nascosto un gesto del genere, perche’ chi fa un aborto si merita un luogo privo di umanita’ e calore”. Ma dopo una mattinata passata li’ dentro le viene comunicato che sarebbe dovuta ritornare perche’ per quella mattina avevano finito le disponibilita’.
Decide quindi di tornare nel primo ospedale, ma nessuno le comunica che anche li’ “effettuano le interruzioni, grazie ad un’unica dottoressa che se ne occupa”. Lo scopre tornando all’ambulatorio dedicato alla 194 nel secondo ospedale quando le dicono che per l’itg avrebbe dovuto aspettare perche’ era alla sedicesima settimana e la proprieta’ veniva data a chi era alla ventiduesima. In quell’occasione le dicono anche che in mezza giornata se la sarebbe cavata: “Ma cosi’ non e’ stato- conclude Michela- e’ stata una procedura straziante e dolorosa, dalle 10 del mattino fino alle 19 di sera”.
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