
In occasione della Giornata Internazionale della Donna l’agenzia di stampa Dire ha deciso di dedicare uno speciale ai quarant’anni della legge 194 sull’aborto.
ROMA – “La verità è che non c’è formazione all’empatia nel percorso di studio per diventare ostetrica e in più devo fare un mea culpa come categoria perché si ha paura di vivere quel dolore che può capitare a chiunque, a tutti noi, i numeri parlano chiaro: una donna su tre può avere un aborto spontaneo. Purtroppo tutti noi abbiamo un parente, un’amica, una conoscente, o noi stesse, siamo passate attraverso questa esperienza dolorosissima che ci segnerà per sempre, per quel bambino mai nato che ci ha lasciato solitudine e dolore”. Sono le parole di Silvia Dionisi, ostetrica dell’associazione ‘Io Sono’ che all’agenzia di stampa Dire ha parlato di quanto sia necessario che le strutture sanitarie e gli operatori stessi siano in grado di accogliere il dolore di coloro che vivono l’esperienza dell’aborto.
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“Molte donne raccontano di essersi sentite sole e abbandonate senza che nessuno comprendesse il loro lutto e questo accade- spiega Silvia Dionisi- perché diventa un’esperienza da minimizzare. Ma basta fermarsi qualche minuto a pensare non solo alle donne ma anche ai papà, alle coppie di ogni età, di ogni tipo. Una donna incinta e la coppia che aspetta un figlio fa mille proiezioni al futuro e di colpo questi sogni vengono interrotti”.
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“Di questo dolore purtroppo non si parla– aggiunge l’ostetrica- come se questo lutto non provocasse lo stesso dolore di un figlio nato e poi morto. Tantissime volte, e sto combattendo affinché non avvenga mai più- sottolinea- viene detto alle coppie ‘Va beh dai, siete giovani ci riprovate’. Una nuova vita non toglie il vuoto che lascia un figlio mai nato“.
“Parliamoci chiaro- prosegue- l’elaborazione del lutto dura due anni, e ho visto tante donne che non rimangono incinta prima che finiscano i nove mesi della gravidanza interrotta, come se dovessero passare realmente quei nove mesi, come se l’utero fosse occupato, ma dai pensieri e dal dolore”.
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Sono molte le donne che denunciano di aver subito un’interruzione terapeutica di gravidanza, accanto a donne che stavano partorendo: “È la più grande forma di violenza che si possa fare– sottolinea l’ostetrica- e sia gli operatori che gli ospedali possono fare la differenza. Nella struttura dove lavoro non facciamo ivg ma dove c’è aborto tardivo, e quindi inevitabilmente la donna deve partorire, abbiamo una grande attenzione nei confronti del dolore. Si può fare una terapia del dolore e avere la sensibilità per preservare l’intimità della coppia e tenerla lontano da donne che stanno portando a termine serenamente la loro gravidanza”.
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“In questi casi la grande responsabilità- precisa- è dell’ospedale. Dove non ci sono posti adatti e luoghi idonei noi operatori che possiamo fare? Le stanze sono quelle ma si deve lavorare per arrivare ad una consapevolezza tale che possa accogliere un dolore così grande. Il percorso emotivo e fisico è dolorosissimo– ribadisce- e non c’è nulla di più soggettivo del dolore. Il dolore varia al cento per cento in base all’emotività della singola persona e una buona empatia può fare differenza”.
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Proprio per questo è fondamentale che ostetriche, medici e infermieri ricevano una formazione adeguata e specifica: “Quando ho fatto l’università- ricorda Dionisi- facevamo tirocinio anche nella piccola chirurgia. Io l’ho fatto all’Umberto I, dove fanno anche interruzioni volontarie e non ci avevano preparato minimamente. Anche noi siamo ragazze giovanissime quando iniziamo e senza avere il minimo supporto certe esperienze possono lasciarti il segno e così, per non sconvolgerti la vita, metti su dei muri che poi però si si ritrovano le pazienti“.
L’ultima considerazione è sull’obiezione di coscienza che, secondo Silvia Dionisi, “è una scelta fondamentale” ma che è diventata una “grandissima piaga italiana”.
“Il problema non è avere la possibilità di scelta– ragiona- ma sono le strutture e le leggi che vengono portate avanti in maniera becera. La struttura deve garantire una percentuale di personale assunto che non sia obiettore, affinché le donne possano ricorrere all’aborto senza dover emigrare”.
“Ma questo- conclude- è un problema politico, non emotivo, e non è accettabile che le donne vengano lasciate completamente sole a cercare soluzioni“.

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