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Recovery Plan, Intesa Rbm Salute: “Sanità integrativa per autonomi, atipici e caregiver”

Un'indagine condotta dalla Fondazione Censis per conto di Intesa Sanpaolo RBM Salute approfondisce le prospettive del Sistema Sanitario del nostro Paese tra sostenibilità, equità e promozione della salute. Intervista a Marco Vecchietti, ad e dg Intesa Sanpaolo RBM Salute

Pubblicato:11-02-2021 12:10
Ultimo aggiornamento:11-02-2021 12:29

marco vecchietti
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ROMA – A quasi un anno dallo scoppio della pandemia e di fronte ad un’assistenza sanitaria che ha impiegato sul fronte della guerra al nuovo coronavirus la maggior parte delle risorse economiche e umane del sistema sanitario pubblico, il IX rapporto sulla Sanità Pubblica, Privata e Intermediata non poteva che registrare l’inevitabile aumento del bisogno di protezione e di salute dei cittadini italiani. L’indagine, condotta come ogni anno dalla Fondazione Censis per conto di Intesa Sanpaolo RBM Salute, approfondisce le prospettive del Sistema Sanitario del nostro Paese tra sostenibilità, equità e promozione della salute. 

Il bisogno di salute nel nostro Paese, come attestano i circa 40 miliardi spesi in sanità privata in Italia ogni anno, è forte e gestito attraverso un significativo impiego di risorse personali da parte di ciascun cittadino. Certo, esistono forme di assicurazione sanitaria integrativa sostenute dalle aziende per i propri dipendenti e collaboratori ma riguardano, per lo più, imprese medio-grandi. Eppure il rapporto rileva che, per 2 italiani su 3, proteggere la propria salute durante la pandemia, che ancora imperversa, è la principale fonte di preoccupazione.  E un dato ancora più importante, che emerge anch’esso dal rapporto, è quello che riguarda il rinvio delle prestazioni sanitarie a causa del Covid-19, che ha riguardato almeno un terzo degli italiani. A fronte dei circa 25 milioni di pazienti con patologie croniche che necessitano di cure, terapie e assistenza continuativa, il rinvio e la rinuncia alle prestazioni rendono il quadro clinico ridelineato dal Covid ancora più drammatico. A illustrare all’agenzia Dire e spiegare i contenuti del rapporto è Marco Vecchietti, amministratore delegato e direttore generale di Intesa Sanpaolo RBM Salute.

– Dottor Vecchietti, il Covid ha acuito il concetto di sindemia: l’intrecciarsi tra un’ampia diffusione delle cronicità, le difficoltà della sanità pubblica in termini di risorse e organizzazione, la crescita dei bisogni di cura e di salute dei cittadini. Che impatto avrà, sul futuro del Sistema sanitario, la cronicità nel dopo Covid?


marco vecchietti

‘La storia del nostro Sistema Sanitario non inizia e non finisce con la pandemia. Del resto, anche questo Rapporto ISP RBM Salute-Censis non è all’anno zero ma è l’ultima tappa di un percorso, iniziato dieci anni fa, di studio e analisi delle principali dinamiche in atto nel nostro Paese con riferimento alle tre componenti chiave della spesa sanitaria: quella pubblica, quella privata e quella intermediata, ovvero gestita da assicurazioni e fondi sanitari. Con l’obiettivo di garantire continuità di approccio metodologico abbiamo scelto di integrare all’interno del IX Rapporto sia le indagini svolte in relazione al 2019, che hanno mostrato un consolidamento ‘strutturale’ del trend di crescita della spesa sanitaria privata, sia quelle relative al 2020 che, per effetto dell’impatto straordinario causato dalla pandemia, hanno registrato una serie di fenomeni e comportamenti assolutamente inediti. Il quadro che emerge da questa vista complessiva è quello di un sistema sanitario, quello del nostro Paese, che a livello di finanziamento presenta una natura ibrida articolata in una componente maggioritaria di spesa sanitaria pubblica, alimentata dalla fiscalità generale (pari a circa 115 miliardi annui) e una spesa sanitaria privata pagata in larga parte (per poco meno del 90%) da ciascun cittadino nel momento del bisogno (pari a circa 40 miliardi di euro annui). Una forma di ‘auto-assicurazione individuale’ quest’ultima, alla quale i cittadini si affidano per tutte le prestazioni sanitarie effettuate al di fuori del Servizio Sanitario Nazionale sperando di non averne mai bisogno. Un elemento di oggettiva debolezza strutturale del nostro sistema sanitario che mette a rischio soprattutto i più fragili. Già il VII Rapporto RBM-Censis, pubblicato nel 2017, evidenziava, del resto, che per poter centrare degli obiettivi assistenziali in linea con i bisogni assistenziali dei cittadini e risolvere il mismatch tra bisogni di cura e risposta assistenziale sarebbe stato necessario, entro il 2025, incrementare la spesa sanitaria di almeno 20/25 miliardi di euro. È in questo contesto, che già necessitava di per sé di interventi di sostegno alla spesa sanitaria complessiva, che ha fatto irruzione la pandemia. Un evento di natura catastrofale che ha stressato gli equilibri, spesso già difficili, tra gestione dei pazienti acuti e dei pazienti cronici, tra risposta ospedaliera e assistenza territoriale e tra sanità pubblica e sanità privata. È con questa consapevolezza che deve essere valutato l’impatto delle risorse straordinarie immesse, direttamente e indirettamente, a disposizione del Servizio Sanitario Nazionale per la gestione della pandemia. Se questi interventi, infatti, hanno sicuramente garantito un boost alla capacità di gestione dell’emergenza, nel contempo non hanno fornito risposta ai problemi strutturali del nostro sistema sanitario. Proprio la contemporaneità di queste due ‘emergenze’, una più endemica l’altra sopravvenuta, ha favorito – soprattutto in una fase iniziale – la rapidità di diffusione della pandemia nel nostro Paese e ha fatto registrare un tasso di mortalità mediamente più elevato rispetto a quello degli altri Paesi europei. E il punto, è importante sottolinearlo, non va ricondotto – almeno non esclusivamente – al parametro della longevità, sul quale ad esempio Italia e Germania si attestano su valori piuttosto simili, ma su quello della fragilità. In altri termini ciò che ha fatto la differenza nel corso della pandemia è la straordinaria incidenza nel nostro Paese di pazienti cronici (circa il 35% della popolazione) e multi-cronici (oltre il 20% della popolazione). La gestione della pandemia ha imposto al Servizio Sanitario Nazionale di inviare tutte le truppe al fronte per bloccare l’invasione del virus, lasciando inevitabilmente scoperte le retrovie. Il 32,9% degli italiani, durante l’emergenza Covid, ha dovuto rinviare, pur avendone bisogno, prestazioni sanitarie di vario tipo. E a farne le spese sono stati inevitabilmente i più fragili che per effetto di questa situazione, hanno visto riorganizzare e/o differire i propri percorsi di cura, spesso di natura continuativa, finendo per essere ancora più esposti all’aggressività del virus. Sono il 63,7% di chi dichiara un pessimo stato di salute, il 45,6% di chi ha malattia cronica, il 36,1% di chi ha figli di età fino a 3 anni, il 41% di chi ha figli minori con età superiore ai 3 anni. Nel 2020 sono stati effettuati 310 mila ricoveri in meno, 13,3 milioni di accertamenti diagnostici e circa 10 milioni di visite specialistiche non sono state erogate, per un valore corrispondente stimabile in 8-10 miliardi di euro. Questo ha reso ancora più fragili e suscettibili di fronte al contagio tutti i soggetti che sono già a rischio a causa della loro patologia cronicà.

– Il futuro ha quindi bisogno di una nuova iniezione di risorse?

‘Diciamo che per il futuro del nostro Servizio Sanitario Nazionale organizzazione e programmazione valgono almeno quanto le risorse economiche aggiuntive. Nell’ultimo decennio la spesa sanitaria pubblica è rimasta sostanzialmente stabile, pur a fronte di un’importante crescita dei bisogni di cura degli italiani, con particolare riguardo ai temi della prevenzione, della cronicità e dell’assistenza ai fragili e agli anziani.  L’assenza delle risorse necessarie a fronteggiare queste esigenze è stata supplita dalla spesa sanitaria privata dei cittadini.  Riorganizzare il sistema sanitario e rinnovare l’approccio nella programmazione sanitaria vuol dire essenzialmente riuscire a diversificare strutturalmente le fonti di finanziamento del sistema sanitario, rivedendone nel contempo anche il modello assistenziale. È in questa prospettiva che si dovrebbe, a nostro avviso, promuovere la costruzione di un sistema sanitario supplementare e sussidiario alla Sanità Pubblica, quello della sanità integrativa (il c.d. ‘Secondo Pilastro Sanitario’), che dovrebbe gestire con un approccio organico e sistematico le risorse dei cittadini necessarie, nel momento del bisogno, per poter accedere a percorsi di cura non disponibili – anche temporaneamente – presso il Servizio Sanitario Nazionale. È la ricetta del resto che trova attuazione già da diversi anni nei principali Paesi europei che, come il nostro, dispongono di un modello di Stato Sociale per i propri cittadini. Per completare e agire la tutela della salute non è più possibile lasciare completamente a carico delle famiglie il costo delle cure da effettuare al di fuori del Servizio Sanitario Nazionale. Il nostro Paese, in questo campo, è uno dei fanalini di coda in Europa con una sottoassicurazione ‘strutturale’ (il rapporto tra premi pagati dagli italiani per le assicurazioni su beni e salute e PIL è dell’1,9% contro una media europea del 4,3%) che obbliga i cittadini a sostenere poco meno del 90% della spesa sanitaria privata direttamente con i loro redditi e i lori risparmì. 

– Qual è la percezione degli italiani sulla sanità che emerge nel rapporto, a quasi un anno dall’inizio dell’emergenza?

‘L’emergenza Covid ha posizionato la salute nella top of mind delle famiglie. Non a caso il 90% degli intervistati indica come priorità assoluta negli interventi richiesti al nuovo Governo una maggiore protezione in campo sanitario. Ma c’è molto di più. La pandemia ha messo in discussione anche alcuni dei convincimenti più radicati sulla gestione della propria salute.  Sono in molti, infatti, ad essersi resi conto che in un momento di maggiore, o più intenso o più rapido bisogno di cure, come quello che abbiamo vissuto negli ultimi mesi, la propria disponibilità reddituale (ove adeguata) può comunque non bastare. Perché avere le risorse per poter pagare di tasca propria le prestazioni sanitarie non (più) disponibili presso il Servizio Sanitario Nazionale non garantisce automaticamente di poter avere accesso ad una rete di strutture sanitarie aggiuntiva a quella garantita dalla sanità pubblica. È esattamente questa nuova consapevolezza che ha intaccato fortemente la propensione di molte persone abituate, fino a marzo scorso, a scommettere sulla propria salute (confidando di non aver bisogno di cura importanti e/o aggiuntive) confidando sulla possibilità di poter ricorrere alla sanità privata come ad una sorta di bancomat sanitario presso il quale ritirare a pagamento in qualsiasi momento le prestazioni sanitarie necessarie. Oggi oltre un terzo degli italiani si dichiara interessato a sottoscrivere una polizza sanitaria con l’obiettivo non tanto di avere il rimborso delle spese sanitarie sostenute, quanto per avere la garanzia di poter accedere ad una rete di strutture sanitarie private senza condizionamenti e delegando tutti gli adempimenti legati alla prenotazione di appuntamenti, visite ed accertamenti ad una società specializzata. Si consideri, peraltro, che tale propensione – dato anch’esso importante – nell’ultimo anno (ovvero rispetto alla medesima rilevazione fatta nel 2019) è cresciuto di oltre il 50%. La sanità intermediata, come il Rapporto qualifica la sanità privata gestita attraverso le Compagnie Assicurative e i Fondi Sanitari è stata quindi identificata – correttamente – non più come un prodotto finanziario ma, come avviene negli altri Paesi Europei, come lo strumento abilitante per un’assistenza sanitaria complementare, aggiuntiva a quella offerta dal SSN. Ecco perché è fondamentale ripartire da una nuova organizzazione del sistema sanitario, integrando anche la sanità integrativa nella programmazione sanitarià. 

– La digitalizzazione della sanità: quanto è determinante per le cure, quanto lo è stato per la gestione dell’assistenza Covid e quale strategia serve mettere in campo?

‘La digitalizzazione può svolgere un ruolo molto importante per l’evoluzione del nostro sistema sanitario. Attraverso la trasformazione digitale, infatti, è possibile realizzare il ricongiungimento effettivo dei percorsi di cura pubblici e dei percorsi di cura privati, garantendo la costante accessibilità per tutti i medici curanti alle informazioni sanitarie del paziente, con un approccio di presa in carico complessiva dei bisogni di cura che ottimizzi il risultato sanitario ed eviti duplicazioni. Consideri che durante la pandemia la telemedicina, che era la ‘cenerentola’ delle prestazioni sanitarie richieste dai nostri assicurati, ha sostituito una quota importante delle prestazioni rientranti nella garanzia visite specialistiche, da sempre una delle più utilizzate. Se da un lato è indubbio che l’irruzione sulla scena del Covid-19 ha fornito una straordinaria spinta alla digitalizzazione della sanità, è pur vero però che per ottenere i risultati duraturi è indispensabile investire in nuove infrastrutture (reti informatiche) e favorire l’adozione di sistemi informatici che supportino i medesimi standard di riferimento. Oggi, anche in questo campo si registrano importanti differenze non solo tra i diversi Servizi Sanitari Regionali, ma anche tra ASL ed ASL e, naturalmente, tra le diverse strutture sanitarié. 

– Non a caso nelle polizze di Intesa Sanpaolo Rbm Salute è stata potenziata l’assistenza in telemedicina. Che risposta avete ricevuto dai cittadini su questa possibilità offerta?

‘Si’, come accennavo l’opzione c’era già nel passato, ma oggi è diventata uno dei plus più apprezzati dei nostri prodotti. Peraltro, ad ulteriore conferma di questo change of mind delle persone, in questo periodo ha conosciuto una significativa crescita anche l’impiego dei sistemi di monitoraggio remoto del paziente (‘RPM’), anch’essi introdotti un paio di anni fa all’interno delle nostre soluzioni assicurative, attraverso i quali favorire un rientro più rapido dei pazienti presso la propria abitazione in fase post-ospedaliera e/o gestire con adeguati livelli di sicurezza l’assistenza dei malati cronici e degli anzianì. 

– In prospettiva, e lo ha dimostrato anche il raddoppio degli investimenti per la sanità nel Recovery Plan, quali sono gli interventi strutturali di cui i cittadini possono beneficiare, in modo trasversale sia nella sanità pubblica che privata?

‘Il nostro sistema sanitario ha bisogno di maggiori investimenti, di un incremento del numero dei professionisti che vi lavorano e del rinnovamento tecnologico e strutturale delle proprie infrastrutture. Si tratta di un piano ambizioso e prioritario per il nostro Paese ma che da solo non è sufficiente a gestire i profondi cambiamenti che dal 1980 (anno di prima operatività del Servizio Sanitario Nazionale) hanno interessato il concetto stesso di salute. C’è un’altra importante infrastruttura che non può più mancare nel prossimo futuro ed è un secondo pilastro sanitario che affianchi il pilastro sanitario di base, gestito dal Servizio Sanitario Nazionale. Questa evoluzione di paradigma assistenziale, assolutamente più soft rispetto agli altri interventi strutturali appena richiamati, potrebbe assicurare concretamente un maggior livello di tutela per i cittadini, fornendo una risposta concreta al bisogno di protezione che è cresciuto con forza in questo periodo. Oggi la sanità integrativa non è ancora un sistema sanitario ma, nella stragrande maggioranza dei casi, è uno strumento di welfare contrattuale gestito dalle parti sociali per i lavoratori dipendenti. Nella situazione attuale è fondamentale estendere la tutela della sanità integrativa anche a piccoli imprenditori, lavoratori autonomi e lavoratori atipici perché in questo modo si assicurerebbe una maggiore sostenibilità della sanità pubblica senza dover intervenire su razionalizzazione o contingentamento dei costi. Le risorse aggiuntive che verrebbero liberate attraverso questo nuovo impianto del sistema sanitario potrebbero essere utilmente impiegati negli ambiti nei quali il Servizio Sanitario Nazionale fatica maggiormente a gestire i bisogni dei cittadini, come ad es. la cronicità e la diagnosi precoce, oppure per sostenere investimenti infrastrutturali di natura tecnologica come la telemedicina, il monitoraggio da remoto dei pazienti e la teleassistenza che possono migliorare radicalmente la qualità delle cure per le persone. In Paesi con un sistema sanitario di matrice simile alla nostra, come il Regno Unito, la polizza sanitaria integrativa interviene in modo organico a supporto del National Health System per la gestione delle liste di attesa. Certo, la premessa necessaria per un utilizzo ‘sociale’ della sanità integrativa, come appena accennato, è una sua maggiore diffusione o meglio, una sua distribuzione più omogenea. Per centrare questo obiettivo bisognerebbe seguire lo stesso approccio utilizzato oramai vent’anni fa con il sistema pensionistico. Si tratta fondamentalmente di due interventi: il primo di natura divulgativa, con una campagna di informazione istituzionale sulla sanità integrativa, ed il secondo di natura fiscale, per estendere i benefici fiscali attualmente riservati ai soli lavoratori dipendenti a tutti i cittadini o, per lo meno, a tutti i percettori di un reddito (circa 45 milioni di persone su 60 milioni di abitanti). In questa prospettiva del resto lo stesso Recovery Fund offre l’opportunità di investimenti strutturali che potrebbero essere impiegati, almeno in parte, per contenere l’ampliamento delle disuguaglianze generato dalla pandemia, rendendo più accessibili e sostenibili anche quelle cure che vengono svolte, per necessità o per scelta, al di fuori del Servizio Sanitario Nazionalé. 

– Nel Regno Unito il sistema sanitario pubblico è andato però depauperandosi in termini di investimenti pubblici e di competenze, a fronte della crescita delle assicurazioni sanitarie. Mi dica che non succederà anche da noi, qualora riuscissimo a integrare nel nostro sistema le polizze sanitarie?

‘Il sistema sanitario italiano e’ sostenuto attualmente da due fonti di finanziamento: la spesa sanitaria pubblica che ammonta ad oggi a circa 115 miliardi di euro e la spesa sanitaria privata, pari a circa 40 miliardi di euro. In termini più concreti significa che attualmente ciascuno di noi sostiene, in media, una spesa di tasca propri per la propria salute, che si aggiunge al finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale al quale tutti partecipano attraverso il pagamento delle tasse, di 692 euro all’anno. Peraltro, il dato medio non deve trarre in inganno, perché il conto è molto più salato per coloro che stanno male: per una persona affetta da patologia cronica, infatti, il costo medio da sostenere per le proprie cure erogate al di fuori del Servizio Sanitario Nazionale sale fino a 1.023 euro, mentre per una persona non autosufficiente il costo da pagare di tasca propria arriva, in media, a poco più di 2.000 euro. Il campo di azione della sanità integrativa, come richiamato dalla sua stessa definizione, non sono i 115 miliardi di spesa sanitaria pubblica, gestiti dal Servizio Sanitario Nazionale, ma i 40 miliardi di spesa sanitaria privata, attualmente, in massima parte, semplicemente non gestiti. Del resto la governance e il playing field di un sistema complementare è dipendente dal sistema principale (il Servizio Sanitario Nazionale, nel nostro caso) ed è proprio per questo che l’assicurazione sanitaria può essere un valido strumento di diversificazione della risposta assistenziale a tutela della salute dei cittadini’.

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