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Il missionario veneto in Etiopia: “A pagare la stretta Ue sui visti saranno i più vulnerabili”

Il nodo delle migrazioni nella testimonianza di padre Agostini, missionario nel Paese del Corno d'Africa da ormai quasi 20 anni

Pubblicato:08-05-2024 11:28
Ultimo aggiornamento:08-05-2024 11:28

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ROMA – “A pagare per la stretta europea sui visti saranno le persone, non certo il governo; sarebbe stato meglio fare il contrario, dare più permessi di ingresso in cambio di maggiori opportunità di fare impresa qui in Etiopia”: padre Sisto Agostini, comboniano originario del bellunese, vive nel Corno d’Africa da quasi vent’anni. All‘agenzia Dire risponde al telefono nei giorni del triduo della Pasqua ortodossa, segnati da celebrazioni, spostamenti, incontri. Il Consiglio Ue ha accusato l’Etiopia di non cooperare abbastanza sul rimpatrio delle persone migranti alle quali nel territorio dei Ventisette non è stato concesso asilo. Il giudizio è stato corredato da una revisione delle regole dei visti di ingresso per i cittadini del Paese del Corno d’Africa. Bruxelles ha stabilito allora che, almeno per un po’, gli etiopi non potranno più godere del regime di favore che era stato finora accordato. Per cominciare, niente più documento Schengen a ingressi multipli disponibile in 15 giorni; adesso ce ne vorranno 45 e l’ingresso sarà singolo. E le regole cambiano pure per i diplomatici etiopi: il visto, finora gratis, dovranno pagarlo.

UN’ALTRA POLITICA POSSIBILE

Secondo padre Agostini, l’Ue dovrebbe tenere una linea differente. “Potrebbe adottare scelte più illuminate e creative a favore dei più disagiati” sottolinea il missionario: “Ad esempio dare permessi in cambio di facilitazioni per gli ingressi in Etiopia, per l’acquisto di proprietà o l’avvio di attività imprenditoriali da parte di cittadini stranieri”. Il rischio sarebbe di favorire ancora di più le migrazioni irregolari. Con peraltro la possibilità che l’Etiopia, già entrata a gennaio nell’alleanza dei Brics con Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, finisca per allontanarsi ancora di più dall’Europa. A preoccupare sono poi gli squilibri sociali, con l’aumento dell’inflazione, e anche regionali. Dopo essere stato insignito del Nobel per la pace per l’impegno in favore di una riconciliazione con l’Eritrea, il primo ministro Abiy Ahmed è stato coinvolto in un nuovo conflitto. L’epicentro delle violenze, con milioni di persone costrette a lasciare le proprie case, è stata la regione settentrionale del Tigray. Un accordo di pace siglato nel 2022 non ha posto del tutto fine all’instabilità. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento dell’assistenza umanitaria (Ocha), nelle ultime settimane circa 50mila persone sono state costrette a lasciare le proprie case da scontri nell’area di Alamata. La zona, al confine con l’Amhara, è rivendicata dal Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf). Rispetto a queste dinamiche padre Agostini rivolge un monito: “L’idea che una comunità si possa affermare a danno di un’altra non porterà mai a una vera pace, che si tratti di tigrini, amhara o oromo”.


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