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Coronavirus, il prete: “Ora pure gli innocenti possono capire il carcere”

Parla don Marcello Mattè, cappellano del carcere della Dozza di Bologna: "Come le persone detenute, ora tutti dobbiamo stare al chiuso"

Pubblicato:30-03-2020 10:41
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 18:03

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BOLOGNA – Dall’inizio dell’emergenza coronavirus il carcere della Dozza di Bologna è diventato “una zona ancor più rossa”, perchè i detenuti non possono avere alcun colloquio con l’esterno. Nemmeno con volontari o figure religiose. Una vita da reclusi in isolamento, che ora anche gli “innocenti” stanno sperimentando a casa propria. Senza poter uscire, senza poter incontrare i propri cari, senza poter stare vicino ai familiare in punto di morte. “Esperienza comune (e disumana) del condannato, ora esperienza degli innocenti”. A tracciare il parallelo è don Marcello Mattè, cappellano del carcere della Dozza di Bologna, in un intervento pubblicato sulle pagine di ‘Bologna 7’, il settimanale diocesano su Avvenire.

“Da giorni sentiamo il peso di dover stare in casa- sottolinea don Mattè- i detenuti sono costretti a stare in un edificio che si chiama Casa (circondariale) ma che casa non è. Voi da innocenti, ‘loro’ a convivenza stretta col proprio rimorso (a volte però anche con la certezza della propria innocenza)”. Da giorni, continua il cappellano del carcere, proprio “come le persone detenute, dobbiamo stare al chiuso perché ciascuno può essere una minaccia all’incolumità dell’altro. Benché voi siate innocenti. Sperimentiamo quanto sia insopportabile sentirsi inclusi dentro una ‘zona rossa’ dove ciascuno è pericoloso per il semplice fatto di abitarci. E senza nemmeno conoscere la data del ‘fine pena’”.

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In questi giorni, sottolinea don Mattè, “come i reclusi e le recluse, troppi sperimentano la solitudine e l’isolamento. Questa pandemia separa dai propri cari proprio mentre si avrebbe più bisogno di una vicinanza affettuosa. Si è costretti a soffrire e perfino a morire senza potersi tenere per mano. Non poter essere presenti al momento della malattia, dell’agonia, dell’ultimo saluto: esperienza comune (e disumana) del condannato, ora esperienza degli innocenti”, rimarca il cappellano della Dozza.

E’ proprio questa “impossibilità di incontrare i propri cari a colloquio”, spiega don Mattè, ad aver nei giorni scorsi “innescato una miscela di rabbie che è esplosa in una violenza senza giustificazione alcuna e, peggio, senza alcuna finalità”. E aggiunge: “Possiamo comprendere il dolore per tutti quegli innocenti che devono subire la pena indiscriminata di non poter vedere nemmeno per un’ora il marito, la moglie, i figli, il papà o la mamma che si trovano nella zona ancor più rossa del carcere”.

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In questi giorni, segnala infatti don Mattè, l’incontro con i carcerati “è precluso a me e a quanti, ministri, volontari, semplicemente amici, cercano ogni giorno di tessere la tela di rapporti umani”. Anche per questo, il cappellano della Dozza dice di sentirsi molto vicino ai parroci che in queste settimane “esercitano un ministero pastorale in questa Chiesa bolognese costretta agli ‘arresti domiciliari'”. Secondo don Mattè, il coronavirus sta imponendo “non soltanto il ‘digiuno eucaristico’, ma il digiuno dall’incontro. La nostra vita di fede si fa ardua senza la vita fraterna, senza l’incontro. Lo dico da cappellano del carcere, che conosce quanto sia difficile mantenere la fede senza l’esperienza ripetuta della comunione. La caratteristica ‘diabolica’ di questa pandemia è che ci isola e ci divide, che trasforma gli incontri in contagi, gli abbracci in epidemia”.

E conclude: “Con fatiche moltiplicate, si stanno ricostruendo infrastrutture e muri della casa circondariale. Noi Chiesa impegniamoci a costruire, nonostante il virus diabolico che ci divide, quel tessuto di rapporti umani che superano i muri. Per riscoprirci Chiesa senza muri. E non sarà stato invano”.

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