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Le seconde generazioni in Italia: “È un paese razzista, la cittadinanza non basta”

I giovani di seconda generazione in Italia non si sentono cittadini italiani neanche quando hanno la cittadinanza. E dell'Italia dicono che è "un paese razzista", dove ci si continua a sentire ospiti. L'88% ha subito bullismo o violenza per la propria origine e il colore della pelle

Pubblicato:29-01-2024 16:10
Ultimo aggiornamento:04-02-2024 17:55

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BOLOGNA – L’Italia è un Paese razzista. E avere la cittadinanza italiana può semplificare la vita, ma non basta a non essere considerati come ‘ospiti’. A esserne convinti sono i ragazzi di seconda generazione, che nonostante questo si sentono comunque pienamente italiani e anzi sono orgogliosi di esserlo, così come sono fieri delle proprie origini. A mettere in luce questo conflitto è una ricerca condotta nell’ultimo anno dall’Ires Emilia-Romagna, l’istituto di ricerche sociali della Cgil, presentata questa mattina a Bologna. L’indagine è stata condotta attraverso un questionario a cui hanno risposto 642 giovani: un terzo ha meno di 18 anni, un terzo ha tra 19 e 25 anni, un terzo è over 25. Il 46% è nato in Italia, oltre il 60% vive in Italia dalla nascita o comunque da un periodo molto lungo. Il 32% ha la cittadinanza italiana, il 25% ha la doppia cittadinanza e il 43% ne ha una diversa da quella italiana. Il 32% ha fatto richiesta della cittadinanza ed è in attesa, il 23% non ha i requisiti per averla.

L’88% afferma di aver subito o di essersi sentito vittima di violenza o bullismo. I motivi principali sono: il Paese di origine (49%), il nome e cognome (35%) e il colore della pelle (26%). Inoltre, l’82% dei ragazzi che hanno risposto alla ricerca pensa che l’Italia sia un Paese razzista e che la cittadinanza non basta per essere o sentirsi italiani. Questo, sostengono i ricercatori dell’Ires, fa emergere una “forte contraddizione tra la sfera di percezione di sé a livello individuale e la percezione di sé nel contesto collettivo”. Il 54% dei ragazzi di seconda generazione infatti parla più di una lingua in famiglia e il 60% pensa prevalentemente in italiano. Ritengono inoltre importante “conoscere le proprie origini” al pari del “sentirsi italiani”.

“ETERNI OSPITI, ETERNI IMMIGRATI”

“Sicuramente colpisce che questi ragazzi, attraverso le loro risposte, propongono una dualità della propria identità molto fluida, in maniera non conflittuale con quello che sono- commenta Fabjola Kodra, ricercatrice dell’Ires Emilia-Romagna- quindi rivendicano con forza il fatto di avere radici che iniziano in un altro Paese, anche se quasi la metà di loro è nata in Italia. Un Paese però che, nonostante i percorsi comuni coi coetanei e la lingua parlata e pensata, cioè l’italiano, li tratta ancora come eterni ospiti, eterni immigrati“. La ricerca mette dunque in luce “questa contrapposizione tra il loro identificarsi come pienamente italiani e il percepirsi nel contesto collettivo come qualcosa di diverso”, sottolinea Kodra. Del resto, “quasi l’80% di loro dice che aver avuto la cittadinanza avrebbe semplificato loro la vita, ma comunque questa non basta a sentirsi italiani a causa del contesto collettivo in cui si trovano”.
Quello della cittadinanza, sostiene dunque la ricercatrice, “non è un tema propagandistico, ma impatta in modo molto forte sulla vita dell’individuo: sulla scelta del lavoro, su dove vivere, sulla percezione di sè. Non è una questione di sangue, ma un tema di dignità e di libertà”. Tra l’altro, aggiunge Kodra, “in maniera molto ingenua spesso viene fatto loro un complimento su come parlano bene l’italiano e poi di solito viene chiesto loro da dove vengono veramente. Della serie: sei nato in Italia, parli la lingua perfettamente, magari hai anche la cittadinanza, ma ancora sei categorizzato in base ai tuoi tratti somatici e non viene riconosciuto un ibridismo culturale nuovo che si fa strada. Non si tratta di immigrati, anche se spesso questo tema viene considerato nello stesso grande calderone dell’immigrazione”.
La ricerca dell’Ires Emilia-Romagna indaga poi la condizione lavorativa, quella abitativa e di salute dei ragazzi di seconda generazione. I giovani senza cittadinanza italiana, ad esempio, sono più spesso occupati (48%). Il 90% inoltre conosce il sindacato, ma per il 64% l’intervento dell’organizzazione è parziale. La condizione legata alla cittadinanza per alcuni è di ostacolo per la carriera desiderata. Anche a scuola si confermano i problemi per i ragazzi con background migratorio. Secondo la ricerca, infatti, un quinto di loro ha dovuto ripetere uno o più anni scolastici. Nel complesso, però, i giovani di seconda generazione sono “più soddisfatti” di quello che studiano, nonostante un “maggiore condizionamento negativo” da parte di famiglie e insegnanti. Per l’11% di loro, peraltro, la mancanza della cittadinanza è “un ostacolo” nella carriera scolastica. Una volta terminati gli studi, poi, i giovani con background migratorio mostrano “una maggiore vocazione all’indipendenza economica”: il 22,5% cerca lavoro e il 39% intende lavorare e proseguire gli studi nello stesso tempo.
La maggior parte dei giovani e ragazzi di seconda generazione vive con i genitori, in zone periferiche, e lamenta difficoltà all’indipendenza abitativa. Alle ragazze inoltre capita più spesso di tradurre o fare da interprete per genitori e parenti. Il tempo libero è ricco di impegni (sport, teatro, cinema e musica) e i ragazzi senza cittadinanza risultano più attivi dei loro coetanei italiani. Le frequentazioni sono con persone di tutte le origini. Dal punto di vista del benessere e della salute mentale, però, i ragazzi con doppia cittadinanza stanno peggio degli altri ragazzi italiani.


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