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L’appello dal Maghreb: “I Governi diano nomi e storie ai migranti morti”

Al festival 'Sabir' in corso a Matera, esperti di migrazione ricordano che solo il 13% dei corpi dei 17mila morti tra il 2014 e il 2019 è stato identificato

Pubblicato:14-05-2022 17:08
Ultimo aggiornamento:15-05-2022 14:09

maghreb migranti
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MATERA – “Ai governi europei e nordafricani chiediamo: se non si vuole garantire la dignità e i diritti dei migranti vivi, si tutelino almeno quelli dei morti“. A lanciare l’appello sono esperti di migrazione da Marocco, Algeria, Tunisia e Libia, ma anche Europa, intervenuti all’incontro ‘Morti invisibili. Le procedure di identificazione nel Maghreb’, organizzato da Euromed Rights all’interno del ‘Sabir – Festival diffuso delle culture mediterranee’, in corso a Matera.

Il panel è stato occasione per richiamare l’attenzione su un’altra faccia della crisi migratoria dal Nord Africa: cosa accade quando le persone perdono la vita in mare su imbarcazioni incerte, nel tentativo di raggiungere l’Europa? Ben poco. Secondo gli esperti, pur sussistendo differenze tra gli Stati, la tendenza dei governi è di non identificare i corpi né di scambiarsi informazioni. E ciò coinvolge sia i Paesi di partenza che quelli del Nord Africa. Dito puntato anche contro quelli europei, come Italia, Grecia e Spagna, sebbene qualche timido sforzo in questo senso negli anni sia stato fatto. Nella maggior parte dei casi, si applicano procedure sbrigative e non accurate che non permettono di identificare i corpi dei naufraghi, né si cercano quelli dei dispersi. Una tomba senza nome, un corpo senza storia lascia anche tante famiglie “senza notizie sul destino dei loro cari e senza una tomba su cui piangere”, come spiega all’agenzia Dire Elena Bizzi, responsabile migrazioni di Euromed Rights.

Secondo l’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr), tra il 2014 e il 2019 ammontano a 17mila i decessi. Di questi, solo il 13% dei corpi – poco più di 2mila persone – sono stati identificati. Non solo: i corpi che non vengono recuperati nelle operazioni di salvataggio, o che il mare non restituisce sulle spiagge nordafricane, “non vengono cercati”. Così, avverte Bizzi, “il numero dei morti resta sottostimato: nel 2022 l’Onu stima 3.000 vittime. Tuttavia, secondo le organizzazioni che monitorano i naufragi sulla rotta delle Canarie (quindi nell’Atlantico settentrionale, ndr) ne calcolano circa 4.000 solo lungo questa rotta”.


A restituire dignità ai morti e una risposta ai familiari, nei Paesi nordafricani si sono allora mossi attivisti e volontari. Come nel caso della Tunisia, come spiega Alaa Talbi del Forum tunisino dei diritti economici e sociali (Ftdes): “Nel 2015, quando sulle spiagge del sud della Tunisia si sono cominciati a trovare i corpi dei migranti, soprattutto di quelli partiti dalla Libia – molti dei quali erano anche siriani, ma anche sudanesi o di altri Paesi dell’Africa subsahariana – tante persone hanno iniziato a preoccuparsi di dargli una sepoltura, acquistando ad esempio terreni da impiegare come cimiteri, o di cercare di raccogliere informazioni per le famiglie“. Un lavoro non facile, dice Talbi, “soprattutto con la Siria, dove c’è guerra e instabilità”. Ma che riguarda gli stessi tunisini in fuga dalla crisi economica che negli anni è peggiorata sempre più. Le autorità, continua il responsabile, spesso “li portavano via in modi non adeguati – usando i camion dei rifiuti – oppure li inumavano in tombe collettive”.

Le fosse comuni informali sono state invece trovate in Libia, “dove i migranti non muoiono solo in mare, essendo un Paese di transito e soprattutto in conflitto“. Lo dice Tarik Iamloum, esperto di questioni migratorie di origine libica, che ricorda: “Ne sono state scoperte tante e ogni volta i governi o i ministri di turno hanno promesso inchieste, che non sono mai cominciate“. Una volta, racconta, “ho visitato un cimitero dove la maggior parte delle tombe riportava solo un numero. C’erano anche tombe molto grandi, che verosimilmente erano collettive. A farmi impressione però, il fatto che a gestire il cimitero fossero proprio i migranti“.

Quegli stessi migranti che in Libia, come hanno denunciato report delle Nazioni Unite e inchieste di stampa, sono spesso le prime vittime degli scontri tra le milizie o delle attività criminose. E questo rende ancora più preoccupante la pratica di riportare i migranti in Libia, una pratica sottoscritta dall’Ue nel 2017, con l’Italia capofila di un’intesa con Tripoli, volta a sostenere la Guardia costiera libica.

Se da un lato vanno rispettati i diritti dei vivi, l’appello dal panel di Matera è a usare la legge anche per dare dignità a chi non ce l’ha fatta: “Al governo tunisino in questi giorni abbiamo chiesto un quadro normativo chiaro sul tema che permetta di raccogliere testimonianze, creare una banca del Dna, mettere in rete istituzioni, famiglie delle vittime e associazioni, e infine fornire sostegno psicologico a chi ha perso in mare un parente” dice Talbi di Ftdes.

Omar Naji dell’Associazione marocchina dei diritti dell’uomo (Amdh) suggerisce inoltre la collaborazione delle ambasciate dei Paesi terzi, dal momento che nel Maghreb giungono persone da tutta l’Africa ma anche dall’Asia. “In Marocco – continua – bisogna poter accedere ai dati del ministero dell’Interno, dato che alcuni migranti arrivano in aereo. Si potrebbero ottenere informazioni utili a ricostruire la storia della persona”.

L’avvocato Kouceila Zergouine, che in Algeria assiste le famiglie di chi ha perso i propri cari in mare, alla Dire dichiara: “Abbiamo depositato decine di querele alle Nazioni Unite affinché incoraggiasse il governo a collaborare. Tale pressione c’è stata ma nei fatti non abbiamo ottenuto nulla”. Un altro ostacolo è dato dal fatto che “la maggior parte dei media e delle organizzazioni internazionali impegnate nei diritti dei migranti si interessa delle persone quando sono in vita, ma ciò che accade ai morti resta nell’ombra”.

D’altronde, conclude Bizzi di Euromed Rights, “queste morti sono conseguenza diretta delle politiche dell’Unione europea in tema migratorio perché, ostacolando modi più sicuri e legali per raggiungere l’Europa e rafforzando il controllo delle frontiere, ha fatto sì che si aprissero nuove rotte migratorie e itinerari molto pericolosi per le persone”.

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