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Amazzonia, Aguirre: “La foresta è un diritto umano, di chi ci vive”

Parla la scrittrice che difende i popoli incontattati in Ecuador

Pubblicato:12-10-2019 16:55
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 15:49
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ROMA – “Basta pensare semplicemente all’Amazzonia come a un problema di attenzione all’ambiente. È la casa dei gruppi umani che la abitano, e difendere e salvare la foresta non significa solo posizionarsi su un tema ecologico, ma sui diritti umani”. È l’appello di Milagros Aguirre, giornalista ecuadoriana autrice di diversi libri in cui ha dato voce ai popoli indigeni non contattati dell’Amazzonia ecuadoriana. La Dire ha intervistato telefonicamente la scrittrice mentre si trovava a Padova, per una conferenza ospitata dall’Università su ‘Amazzonia, deforestazione, estrattivismo fossile: diritti dei popoli indigeni e alternative’.

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Tema dell’intervento di Aguirre, in particolare, la situazione del popolo Tagaeri-Taromenane, di cui si occupa da decenni. Gli appartenenti a questo gruppo, che ha una propria lingua e una propria cultura originarie, sono stimati in alcune centinaia e vivono nel parco nazionale dello Yasunì, sul tratto settentrionale del confine con il Perù. Dal 1999 l’Ecuador, con una decisione storica, la prima nel suo genere, ha decretato la necessità di un’area riservata all’autodeterminazione dei popoli Tagaeri e Taromenane. Tutttavia solo nel 2007 la Zona intangibile Tagaeri-Taromenane (Zitt) è stata delimitata ufficialmente e nei 7500 chilometri quadrati di sua pertinenza sono state vietate tutte le attività industriali. In realtà, tuttavia, la Zona intangibile continua a essere un progetto solo sulla carta e i popoli che la abitano rischiano l’estinzione.

“Vedo due prospettive, a meno di un serio intervento della politica, che però non sembra imminente” spiega Aguirre: “Che non sopravvivano affatto, e allora si tratterebbe di un genocidio, oppure che sopravvivano integrandosi e unendosi alla comunità degli indigeni Waorani. Potremmo parlare allora di etnocidio: sebbene gli waorani siano il popolo più simile a loro, non sono più ‘incontattati’, ma spesso sono diventati parte di quella classe di ‘cittadini di serie B’ indigeni poveri, che abitano come immigrati nelle città”.

Nonostante l’istituzione della cosiddetta Zona intangibile, i Tagaeri-Taromenane sono minacciati da un complesso insieme di fattori: dalle violenze che subiscono periodicamente da parte dei vicini Waorani all’impatto ambientale e sonoro legato all’estrazione del petrolio, che avviene anche in zone limitrofe, dove sarebbe proibito, alle attività di caccia e disboscamento illegali. Ancora Aguirre: “Se non cambia il modello globale, è impossibile che gli indigeni accedano ai loro diritti, perché è il modello, il sistema, che impone loro di avere denaro, risorse, consumi, e ha come principio e come fine l’estrazione delle risorse. Se non cambia il modello, la situazione degli indigeni non cambierà, se non in peggio”. Nel libro, ‘Una tragedia ocultada’ (Una tragedia occultata’), Aguirre racconta insieme con altri studiosi le violenze del 2003 e del 2013, in cui numerosi indigeni Tagaeri-Taromenane furono uccisi in attacchi da parte degli Waorani: “Non si sa ancora quanti morti ci siano stati, perché lo Stato ecuadoriano non ha investigato sul tema” afferma Aguirre. “E’ anzi sorprendente che il loro popolo sopravviva, perché ha subito moltissimi attacchi, di cui spesso non si sa nulla. Negli anni, la popolazione Waorani è cresciuta molto e ora è in atto una competizione per lo spazio: è passata da 300 individui negli anni ’50 ai circa 2-3mila attuali”. Secondo la scrittrice, però, il problema principale è l’assenza di volontà politica. “Manca la volontà di intervenire e di capire che questi popoli non hanno frontiere” denuncia Aguirre: “Sono popoli nomadi e hanno bisogno di un grande spazio di territorio per sopravvivere”. 

A complicare lo scenario è il ruolo delle grandi aziende petrolifere, che spesso sono autorizzate dallo Stato a violare il divieto di esercitare attività nelle aree limitrofe alla zona ‘intangibile’. Questa è circondata da cinque blocchi petroliferi gestiti principalmente dall’azienda di Stato Petroamazonas, dalla spagnola Repsol e dalle cinesi Andes Petroleum, e Petroriental, oltre che da società bielorusse minori. Le compagnie hanno una forte influenza anche su gruppi indegeni Waorani, che da loro ricevono, in termini di beni e servizi, “più di quanto non ricevano dallo Stato” dice Aguirre.

A offrire una chiave di lettura anche Massimo De Marchi, coordinatore del progetto di ricerca ‘Cambiamenti climatici, territori, diversità’ dell’Università di Padova. “L’illuminazione notturna e il rumore legati allo sfruttamento petrolifero disturbano la caccia e per consentire le attività estrattive sono state aperte strade nuove, che frammentano la foresta” sottolinea il professore. De Marchi, intervistato insieme con la scrittrice, è tra i principali promotori della conferenza di ieri: “Siamo uno tra i pochi gruppi di ricerca a livello internazionale che utilizza un duplice approccio. Dall’alto, con tecnologie satellitari, e dal basso, andando sul campo e parlando con le persone. Pensiamo all’Amazzonia come una casa abitata di persone vive, non in termini utilitaristici. L’Amazzonia ha un valore in sé, lo hanno i suoi popoli che si sono ritirati volontariamente, e che ci mostrano che esiste un altro modo in cui è possibile vivere”.

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