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Freni come rasoi, tecnologia da F1 e strade killer: perché il ciclismo è diventato una roulette russa

Dopo lo schianto di Vingegaard al Giro dei Paesi Baschi, i corridori lanciano l'ennesimo allarme: "Ormai è un miracolo costante"

Pubblicato:05-04-2024 11:28
Ultimo aggiornamento:06-04-2024 19:12

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ROMA – Jonas Vingegaard, Remco Evenepoel e Primoz Roglic erano – forse lo sono ancora – tre dei quattro favoriti del Tour de France. Si sono schiantati tra rocce ed asfalto alla fine di una curva, a 35,4 chilometri dall’arrivo d’una tappa del Giro dei Paesi Baschi. Appena dieci giorni fa era caduto un altro big, il belga Wout Van Aert. “Il ciclismo è diventato un miracolo permantente”, sintetizza con ispirazione Romain Bardet, anch’egli finito a terra il mese scorso alla Tirreno-Adriatico, con una commozione cerebrale. L’ultimo di tanti lutti del ciclismo professionista risale al Tour de Suisse dello scorso anno, quando morì Gino Mäder. C’era un dibattito in corso – per una chicane da aggiungere al percorso della Roubaix – già prima che i migliori ciclisti del pianeta si fratturassero costole e clavicole in Olanda.

La percezione del pericolo costante è un incubo ricorrente nel gruppo. I ciclisti lo scacciano cercando di non pensarci. Almeno mentre sfilano a 60 all’ora tra alberi e marciapiedi. Poi, una volta superato il traguardo, ragionano, come in un flusso collettivo d’autocoscienza. L’Equipe ne ha sentiti un po’ dopo l’incidente di ieri. “Non riconosco più il mio sport – dice Rudy Molard, per il quale “serve una presa di coscienza generale del pericolo”.


Il primo problema, per tutti, è la velocità media costantemente in aumento: “Questa è la causa principale del problema”, dice Valentin Madouas. “L’evoluzione delle marce è incredibile, ogni anno si sale di una marcia. Quando sono diventato professionista (nel 2018), tutti erano sul 53×11 ​​ma siamo passati rapidamente al 54 e oggi, nelle tappe pianeggianti, devi indossare il 56 se vuoi restare con gli altri. Prima c’erano solo i velocisti, adesso ci sono tutti: i corridori, i leader, i compagni di squadra…”.

“Le bici sono molto più manovrabili di prima. Non ci sono quasi più danni materiali: tutto è più sicuro, l’aderenza delle gomme è ottima. Le cadute sono causate da errori umani, non da problemi meccanici”.

Per Thierry Gouvenou la sua bici “quasi non è più una bicicletta”. E i freni a disco hanno cambiato tutto, più d’ogni altra componente meccanica. Permettono di frenare più tardi rispetto a quelli a pattini. Si riducono gli spazi di frenata, e “non si ha più il tempo di vedere il pericolo arrivare comunque, perché ci sono sempre almeno sessanta persone che corrono tutte incollate insieme”, nota Madouas. “Al minimo errore è garantito che si formi un grosso mucchio”. E “i freni a disco tagliano come rasoi. Quando si cade così, è la roulette russa“.

“Può sembrare paradossale ma oggi tutti i ragazzi hanno una tale padronanza della propria bicicletta che cercano inconsciamente di raggiungere certi limiti che prima non osavano immaginare”, spiega Bardet. Prima con i freni a pattini, sotto la pioggia, stavi attento, lasciavi un margine di sicurezza. Ora non più. Avere fiducia nella tua bici ti incoraggia a commettere errori”.

Le Parisien ne ha parlato anche con Pascal Chanteur, capo del sindacato francese dei corridori: “Abbiamo creato dei mostri tecnologici. Il nostro primo errore è stato accettare i freni a disco, perfetti per la frenata anticipata ma non per l’arresto di emergenza. E ora le bici sono sempre più rigide”. Le bici non possono scendere sotto il peso minimo di 6,8 kg imposto dalla federazione internazionale. Ma i produttore vanno avanti con la ricerca sull’aerodinamica, sulla qualità dei pneumatici, sulla dimensione o sulla composizione del manubrio. Le biciclette diventano sempre più snelle ma risultano complicate da controllare in caso di scivolata o deviazione. “Ci troviamo nella posizione della Formula 1 al tempo dei motori turbo. Ad un certo punto, la F1 è stata in grado di legiferare e fermare la corsa alla velocità. Dobbiamo fare lo stesso e decidere di limitare le bici”.

E poi ci sono le distrazioni. “Devono lasciare a noi le redini della corsa nella foga del momento”, dice ancora Bardet. “Spesso ci troviamo in situazioni di stress estremo per niente. Le cuffie creano corridori robotici telecomandati e situazioni di pericolo artificiale. Questo vale anche per i computer, sui quali i corridori a volte hanno lo sguardo un po’ troppo concentrato durante la corsa. Oggi il ciclista in bicicletta è come un uomo in macchina che ha il telefono con Waze e i suoi schermi”.

Bardet suggerisce anche di rinforzare ulteriormente la segnaletica durante le gare, soprattutto in occasione di alcuni eventi che ne hanno realmente bisogno, come succede al Tour de France: “Non ho mai visto un comportamento pericoloso da parte di un pilota in una curva ben segnalata, con un addetto alla sicurezza che fischia o un cartello con un segnale sonoro. Richiede più logistica, più infrastrutture, ma visto come stanno andando le cose bisogna pensarci”.

Marc Madiot, il capo della Groupama-FDJ aggiunge: “Facciamo le cose al contrario. È come se guidassi sempre con il telefono in mano. Abbiamo una rete stradale che si evolve ogni anno per rallentare le auto mentre noi andiamo sempre più veloci nelle gare.

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