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“È morto Pantani”, 20 anni fa l’Italia perse il suo eroe via sms

"Pantani è morto, forse si è suicidato": la notizia della morte di Pantani, il 14 febbraio 2004, cominciò a rimbalzare da un telefono all'altro con un sms. Era il tonfo definitivo di uno che per misura di vita aveva scelto la risalita

Pubblicato:14-02-2024 13:06
Ultimo aggiornamento:14-02-2024 13:06

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ROMA – Marco e Panzavolta facevano “che io sono Saronni e tu Moser”. Pantani prima di diventare Pantani e infine morirne, voleva essere sempre Saronni. Era in prima media, quando chiese la bici al nonno. Una Vicini rossa modello Tour de France. Panzavolta, il compagno di classe, aveva il papà che correva nella Fausto Coppi. Ingarellarsi per gioco, e per la vita, fu un attimo. Un attimo sono venti anni che è morto.

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14 febbraio 2004. San Valentino, i cuori, le rose, i piccioncini. E quella notizia che cominciò a bippare con la suoneria degli sms sui cellulari antichi degli italiani innamorati di lui. Facebook era nato appena una settimana prima, la viralità a quei tempi non esisteva. “Pantani è morto, forse si è suicidato“. Era il tonfo definitivo di uno che per misura di vita aveva scelto la risalita. Pantani era caduto la prima volta nel pancione di mamma Tonina, che andava a fare la spesa in bici con la futura sorellina Manola d’un anno appena sul seggiolino. Farsi male è una roba da grandi, farsi male come s’è fatto male Pantani solo da grandissimi. Morire in un residence di Rimini fuori stagione, è un destino eterno da rockstar un po’ patacca.


Quando la notizia fu vidimata dai tiggì, scrissero poi che col “pirata” era morto il ciclismo. Quello delle fughe romantiche, delle telecronache di Adriano De Zan, delle tappe di montagna che scandivano i pomeriggi davanti alla tv a far finta di fare i compiti. “Eccolo, è partito Pantani”, annunciava De Zan. Che era tipo un segnale, e a quel segnale “scatenate l’inferno”. E il pirata s’alzava sui pedali, inspirando tutto l’ossigeno dei tinelli d’Italia in apnea. Panta in greco vuol dire tutto.

Era ciclocross, quello di Pantani. Una corsa a tappe e ostacoli. E’ stato indagato da sette procure diverse per frode sportiva. Tre volte è finito a giudizio. In due occasioni è stato assolto. Il terzo processo è decaduto per morte dell’imputato. Il mare di Cesenatico l’ha guardato per ultimo. Fine pena mai. Il giornalismo ci mise un secondo a tradurre una carriera d’incensi in dita puntate. Spuntò fuori il narcisismo della magistratura.

Oggi sono venti anni che è morto. E trenta che è nato, al Giro del 1994: la tappa del Mortirolo. Pantani, leggero, quasi brullo, che manda in crisi Indurain. Lo pianta e va su, lungo le stradine strette e scoscese incorniciate dagli alberi. Scavalla in cima. Poi si sistema dietro la sella, come facevano i ragazzini spericolati, un missile in discesa. E infine in pianura, contro vento. Aspetta Indurain, lo fa tirare un po’. E poi di nuovo in salita, ciao ciao, “al cine vacci tu”.
Seguirà una carrellata di imprese. Gli incidenti, la Milano-Torino, il gatto al Giro d’Italia, le rimonte al Tour con l’idolo di casa, Virenque, sverniciato con impalpabile superiorità. Pantani garantiva il fabbisogno isterico della gente d’un ciclismo epico. Nel luglio del 1998 sotto un inferno atmosferico, disintegrò Ullrich sul Galibier e andò a prendersi la maglia gialla per tutti noi. “Vado forte in salita così smetto prima di soffrire“, disse in una memorabile intervista a Gianni Mura che lo soprannominò pantadattilo.

Ma Pantani correva controvento. Non a caso il regista de ‘Il migliore’ – uno dei più puntuali documentari sulla sua vita – monta per tutte la celebre tappa di Oropa, quando il gruppo accelerò non appena Pantani ebbe un guasto alla catena. Li riprese tutti, uno ad uno, passò davanti ai volti tirati di Gotti e Savoldelli, quello quasi ammirato di Jalabert, e vinse. Quando venne fermato, era maglia rosa, maglia verde, maglia ciclamino. Era il ciclismo, Pantani.

Venne poi Madonna di Campiglio, l’ematocrito a 52. Fu fermato quando aveva praticamente vinto il secondo Giro d’Italia di fila. Lo visse come un tradimento. “M’hanno fregato”. Tornò, vinse contro Armstrong al Mont Ventoux, al Tour. E quello, il dopato per eccellenza, ebbe la faccia tosta d’umiliarlo: “L’ho fatto vincere”. Pantani un attimo fa era un mito, l’attimo dopo un martire. Fanno venti anni oggi, che non lo lasciano in pace. Finito al centro d’un complotto, chissà, la sua storia è rimasta sospesa nel sospetto. Non è mai risultato positivo a un controllo, ma i file ematici dell’Università di Ferrara dal 1992 al 1996, registrati a nome Panzani, Panti, Ponti, Padovani… davano i numeri d’una prossimità al doping: l’ematocrito oscillava dal 41 al 56%. All’ospedale delle Molinette, dopo l’incidente della Milano-Torino 1995, era al 60,1%. Tanto che i medici dovettero iniettargli litri di diluente per evitare una trombosi. Oggi lo sappiamo per ammissione postuma dei vari Armstrong e Ullrich: il doping ematico era la norma nel ciclismo dell’epoca. Pantani, come quasi tutti, viaggiava con una centrifuga per analizzarsi il sangue e non superare le soglie previste.
Pantani s’è tirato fuori da quella pozza salmastra di invidie e sospetti, a San Valentino del 2004. Venti anni oggi. Stanza D5, Residence Le Rose di Rimini. Overdose. Gli ultras del Cesena lo proteggevano, avevano minacciato i pusher della zona: niente roba al Pirata. Uno tradì.
Era stato Saronni, l’aveva superato. Era caduto, s’era rialzato, aveva scoperto che dopo il traguardo non c’era più nulla.

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