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Senza amore alla fine che fai? Abbracci i soldi?

Nel nostro Paese quasi il 25 per cento dei cittadini è a rischio povertà o esclusione sociale: fra quanto la situazione diventerà esplosiva? L'editoriale del direttore dell'agenzia Dire, Nico Perrone

Pubblicato:02-08-2023 16:12
Ultimo aggiornamento:02-08-2023 16:12

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ROMA – Veloce scambio di battute all’edicola, nella mia zona ancora resiste, sul bacio di Barbara Berlusconi al suo uomo immortalato sulla copertina del settimanale popolare. Il signore e la signora che commentano hanno l’aria di chi sta in pensione, hanno ritmi più lenti rispetto a quelli che sulla strada corrono veloci anche sotto il caldo. La frase, forse consolatoria nei confronti dei nostri miliardari che, anche loro, alla fine hanno bisogno di amare se no…  può benissimo sintetizzare l’eterno conflitto tra ricchi e poveri, tra chi ha sempre di più e chi sempre meno. Mi ha fatto pensare ai tanti problemi che da cronisti seguiamo in queste ore. A partire dalle proteste in alcune città di quanti sono rimasti senza reddito di cittadinanza, molte volte unica fonte per tirare a campare. Il Governo Meloni, per la verità sulla scia del racconto fatto passare in questi anni dai governi precedenti, ha sposato l’idea guida: bisognava tagliare per dare un lavoro a tutti quelli che finora se ne sono stati sdraiati. Tutto bene? No, sarà caos. Messo sotto traccia dal generale agosto assai probabile che a settembre esploderà con forza. Intanto perché è guerra sui numeri, tra quelli avvisati dall’Inps e gli altri in sospeso, che aspettano di rifare domanda davanti ai centri dell’impiego. Per molti è qualcosa che abbiamo già visto in passato, qualcosa di immutabile.

Il nodo resta quello del lavoro in Italia, che seppure in crescita nell’ultimo periodo, resta un miraggio soprattutto per i giovani. Tema esplosivo anche questo, perché si accompagna ad una rivoluzione  sociale già in atto negli Stati Uniti che prima o poi arriverà anche da noi, periferia dell’impero. Parlo delle rivolte di milioni e milioni di lavoratori che dopo anni hanno ripreso a protestare in tanti paesi del mondo per migliori condizioni di lavoro; dei milioni e milioni di cittadini che continuano a dimettersi spontaneamente, lasciando un lavoro giudicato ormai più che una risorsa per vivere degnamente un danno alla salute personale.

Ancora negli Stati Uniti arrivano segnali importanti e, sicuramente per la parte straricca, inquietanti: oggi una famosa agenzia di rating ha tolto la tripla A al bilancio americano, ora giudicato meno sicuro, facendo crollare le borse e suscitando la forte reazione e protesta del potere politico e bancario. Anche questo peserà, e le conseguenze arriveranno anche dalle nostre parti. Tornando al tema centrale, sulla necessità di lavorare per vivere e sui cambiamenti in atto, più prima che poi bisognerà intervenire per trovare risposta a questa domanda: ma se il lavoro che ho non mi permette più di vivere? Se il lavoro che svolgo mette a rischio la mia salute, toglie il sonno e fa aumentare pensieri cupi sul futuro? Che si fa?  Eppure è scritto nella nostra Costituzione, siamo una Repubblica fondata sul lavoro. Ma è chiaro che il lavoro deve essere un vero lavoro, deve permettere di organizzare la vita, di poter pensare al futuro. Ecco, a me sembra che questo oggi sia un problema di tanti, destinato ad aggravarsi. Anche perché, sono i dati Istat non le mie parole, nel nostro Paese quasi il 25 per cento dei cittadini è a rischio povertà o esclusione sociale. Davvero pensiamo che si potrà continuare così all’infinito? Che una parte così importante di disperazione se non troverà soluzione se ne starà sempre buona e in silenzio per non disturbare chi se la spassa o fa spallucce? E poi, come ho letto in un articolo della bravissima Francesca Coin, “Io non voglio far carriera, voglio stare seduta in veranda“. Tradotto, c’è da riconquistare anche la sacrosanta voglia di vivere e non solo di lavorare. Appare quasi una bestemmia pensare al tempo di non lavoro, immersi ‘in una situazione in cui ogni momento di veglia è diventato il tempo in cui ci guadagniamo da vivere’, come spiega Jenny Odell nel suo ‘Come non fare niente’ (Hoepli, 2021). Per quanto possiamo ancora reggere? Per quanto possiamo ancora ingannare i nostri giovani, il nostro futuro, con la balla che se non basta una laurea se ne devono prendere altre? Per ritrovarsi alla fine con due lauree comunque a fare i camerieri pagati poco.


Guardate che non è solo un dibattito snob del ricco Occidente. Anche nella Cina, dove impera la dittatura comunista e militare, è nato un forte movimento di protesta contro i ritmi di lavoro – lì c’è l’obbligo di lavorare dalle 9 alle 21 per 6 giorni alla settimana- chiamato ‘Sdraiarsi’. Questo è il punto, sul quale magari una forza politica che si richiama alla sinistra, al cambiamento e alle riforme per la difesa dei diritti, non dico dovrebbe fare un convegno ma aprire una discussione e un confronto nazionale, città per città, chiamando a raccolta tutti quelli che vogliono fare quelle cose che un tempo erano compatibili con il lavoro e che ora non possono più fare,  tutti quelli che  ‘banalmente, vogliono vivere’ (Coin). Una situazione tragica, che l’umorismo del gruppo napoletano Addolorata rigira in ironia in una sua canzone: ‘E allora basta, adesso mi licenzio, anzi no, mi faccio licenziare così è lo Stato che mi dovrà pagare tutta l’estate sulla sdraio al mare…’. Tornando seri, è chiaro che bisogna cambiare il nostro modello produttivo e sociale, che la nostra classe dirigente (ma ce l’abbiamo una classe dirigente?) torni a pensare a quale Italia vuole lasciare ai nostri figli. Ogni tanto qualcuno ripete: meglio l’uovo oggi o la gallina domani? Superato, perché come cantava un grande gruppo musicale, alla fine gli affamati si mangeranno i ricchi.

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