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Etiopia, nel Tigray si combatte ancora ed è preclusa ogni comunicazione

La Croce Rossa Internazionale ha raccolto 3.000 richieste di informazioni sui propri cari, irraggiungibili a causa del conflitto

Pubblicato:01-12-2020 12:34
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 20:40
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ROMA – Nella regione etiope del Tigray combattimenti sono segnalati alle porte del capoluogo Macallè, città da mezzo milione di abitanti. Sebbene il primo ministro Abiy Ahmed ieri abbia confermato la presa della città, i vertici dell’amministrazione ribelle del Fronte di liberazione del popolo tigrino (Tplf) hanno fatto sapere che i propri uomini stanno continuando a combattere.

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Le comunicazioni risultano ancora tagliate quindi è difficile verificare la veridicità delle informazioni che provengono dalle due parti. Stando a quanto ha riferito Abiy, le forze tigrine si starebbero raggruppando poco lontano dalla città e la maggior parte dei combattenti che hanno lasciato Macallè si starebbero arrendendo all’esercito federale. Il capo del governo ha inoltre dichiarato che, dato che i combattenti sarebbero usciti portando con sé le famiglie e i soldati dell’esercito etiope fatti prigionieri, non è stata usata violenza contro di loro.


SECONDO LA BBC SONO STATI LIBERATI 4.000 PRIGIONIERI

Il capo del Tplf, Debretsion Gebremichael, fino all’inizio del conflitto al governo della regione, ha negato questa ricostruzione, assicurando che le forze tigrine sono tuttora impegnate “contro gli invasori”. Ha quindi confermato alla stampa internazionale che ha lasciato la città e che ora si troverebbe poco lontano dal capoluogo. L’emittente Bbc, citando i vertici del Tplf, riporta il rilascio di oltre 4.000 soldati federali che le forze tigrine avevano catturato quando avevano attaccato una base militare federale, a inizio novembre. Questo confermerebbe così “l’incidente” a cui il governo di Addis Abeba avrebbe risposto avviando l’operazione militare per destituire il governo del Tplf il 4 novembre.

IL BILANCIO DELLE VITTIME RIMANE INCERTO

Al momento il bilancio delle vittime resta incerto. La Commissione dell’Etiopia per i diritti umani – un organismo federale – ha però espresso preoccupazione sulla sicurezza delle popolazioni locali e ha fatto appello al governo affinché ripristini la corrente elettrica e le telecomunicazioni nella regione.

https://vimeo.com/485925908

MIGLIAIA DI RICHIESTE DI INFORMAZIONI SUI PROPRI CARI

Il blackout delle comunicazioni nella regione del Tigray è un enorme problema anche per chi desidera avere informazioni sui propri cari, irraggiungibili a causa del conflitto. Sono infatti oltre 3.000 le richieste di aiuto da tutto il mondo, dall’Africa al Nord America passando per l’Europa. A raccogliere domande, nomi e indirizzi è stato il Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr), riferisce all’agenzia Dire Crystal Wells, portavoce dell’organismo per l’Africa. “Un mese di combattimenti nella regione del nord dell’Etiopia ha provocato una crisi umanitaria, destinata purtroppo ad aggravarsi con il proseguire degli scontri” sottolinea Wells. “Ci sono decine di migliaia di persone già fuggite in Sudan e un numero di sfollati nel Tigray che noi stessi abbiamo difficoltà a quantificare”. Secondo la portavoce, dopo un sopralluogo effettuato dai suoi operatori due settimane fa la Croce Rossa è impegnata a portare aiuti a circa 7.300 persone nella parte occidentale della regione.

PREOCCUPA LA TENUTA DEGLI OSPEDALI

“La grande preoccupazione riguarda però anche la tenuta degli ospedali, a cominciare da quello di Macallé, dove a causa dei problemi di approvvigionamento temiamo finiscano le medicine” dice Wells: “Non solo quelle necessarie a curare i feriti ma anche quelle indispensabili per la dialisi o il diabete, una malattia che la guerra non ha fermato”. È questo il contesto delle richieste di contatto. A farle arrivare al Comitato internazionale della Croce Rossa, alla sua base a Nairobi e ai suoi responsabili in Etiopia, sono esponenti della diaspora, migranti, parenti angosciati per le loro famiglie d’origine. “Il blackout va avanti da settimane” sottolinea Wells. “Ci chiedono se sappiamo dove siano, se stiano bene o se possiamo essere ‘ponte’; noi facciamo quello che possiamo, anche in una scuola a Macallè, dove mettiamo a disposizione alcuni telefoni satellitari per mandare messaggi ai familiari, che inoltriamo subito ad Addis Abeba”.

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