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VIDEO | Castronovo (Sip):”L’80% degli adolescenti sperimenta disagio emotivo”

Autolesionismo in 20%, depressione in 11% ma solo 13% pediatri pronti

Pubblicato:31-05-2019 16:55
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 15:21

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ROMA – L’80% degli adolescenti sperimenta un disagio emotivo. In un caso su due emerge il bisogno di un sostegno psicologico, ma l’84% di questi poi non chiede aiuto, mentre nel 15% dei casi sono emersi episodi di autolesionismo. Questa è la fotografia scattata da un’indagine della Società italiana di pediatria (Sip) nel 2017, presentata oggi al 75esimo congresso nazionale da Serenella Castronuovo, pediatra membro del gruppo di studio della Sip sull’adolescenza.

Quanti sono gli adolescenti in Italia?

Secondo gli ultimi dati Istat (2018) ci sono 2 milioni 900 mila soggetti dai 14 ai 19 anni sulla Penisola, il 4.7% della popolazione. È una fase della vita che dovrebbe terminare a 19 anni, sebbene la Società americana di medicina dell’adolescenza la protrae fino ai 21. In effetti, però, secondo la pediatra sono 3 le fasi adolescenziali: dai 10 ai 12 anni con l’inizio della pubertà; dai 13 ai 15 anni, momento in cui emergono i comportamenti a rischio; infine dai 16 ai 19 anni, quando nascono le prime preoccupazioni sui temi dell’indipendenza economica e dell’inserimento sociale.


Perché è importante, oggi, parlare di loro?

“È un bollettino di guerra- risponde il medico- suicidi, overdose, violenze. Sono adolescenti fragili e vittime inconsapevoli della loro fragilità”.

E cosa dicono i genitori?

“Per loro sono tutti ragazzi sereni, mentre è proprio dai 12 ai 19 anni che avviene l’esordio della maggior parte dei disturbi psichici”. Dal lato dei pediatri la situazione non è migliore. “Solo il 13% di loro- rivela ancora Castronuovo- dichiara di sentirsi adeguato e preparato a gestire gli adolescenti (fonte Pediatrics 2015)”. Comportamenti inappropriati, uso di alcol e tabacco, calo improvviso delle prestazioni scolastiche, bassa autostima, ansia generalizzata e dipendenza da internet “sono tutti segnali di disagio- continua Castronuovo-. I pediatri devono controllare il ritmo sonno-veglia, i contatti con i pari, i loro interessi oltre che quello del pc, se l’affettività risulta appiattita, il tipo di rapporto con la famiglia, se partecipano e vivono i problemi di famiglia”.

Passando all’autolesionismo, “è una problematica inserita nel Dsm-5 (il manuale diagnostico e statistico sui disturbi mentali) e tra gli adolescenti ricoverati è una pratica presente fino all’80% dei casi. Il fenomeno è in crescita in Italia, con una prevalenza del 20% nelle ragazze e un esordio tra i 12 e i 16 anni, dopo i 24 anni sparisce”.

Se le femmine tendono a tagliarsi, i maschi si bruciano, ma qual è l’eziologia?

“Si pensa che alla base possano esserci traumi infantili, stati di eccessive emozionalità negative, abusi. Il pediatra deve aiutare il paziente a confrontarsi con le sue emozioni, ma capire se questo fenomeno rappresenti un campanello di allarme su una possibile idea suicidaria. Non abbiamo parametri che possano confermarlo- fa sapere Castronuovo- per questo motivo bisogna stare attenti”.

In tema di alimentazione, inoltre, “notiamo un’eccessiva preoccupazione sulla forma fisica e su un controllo calorico ossessivo. I genitori non accettano che il figlio abbia un disagio psichico e questa tendenza è valida anche per una cefalea. Bastano 4 domande per capire se gli adolescenti soffrono di un disturbo alimentare: quante diete hanno iniziato nel corso dell’ultimo anno? Devono mettersi a dieta? Sono soddisfatti del loro corpo? Il peso quanto influenza l’idea che hanno di loro stessi?”. 

In aumento anche la depressione tra i più piccioli

Nel 2016 un articolo pubblicato su Pediatrics ha segnalato che la depressione nei giovani sia passata da un 8% nel 2005 a un 11% nel 2014. “Ricordiamo che il rischio suicidario aumenta di 30 volte se associato alla depressione”, aggiunge Castronuovo. Come prevenzione il pediatra ha un’arma da giocare: i bilanci di salute. “Possiamo chiedere alla famiglia un colloquio senza i genitori perché il ragazzo spesso non parla davanti a loro, ma è importantissimo il setting. Bisogna iniziare a parlare senza giudicare– conclude- l’ascolto deve essere empatico”. Infatti, senza relazione non è possibile alcuna cura, assicura Gianni Biondi, psicologo clinico dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù. “Scopriamo che abbiamo sempre meno tempo con i pazienti, non abbiamo il tempo di entrare in relazione con loro per consentire di parlare ed ascoltare. Noi lavoriamo con la rivoluzione che la malattia ha determinato e i livelli di sofferenza dei genitori son commisurati al livello dei sintomi del malessere vissuto dai bambini e dagli adolescenti”, precisa lo psicologo.

Il dato è confermato da Momcilo Jankovic, pediatra ematoncologo, che dal 1989 al 2016 ha comunicato 750 diagnosi ai giovani italiani. “Il 90% dei minori oncologici, ad esempio, vede i genitori tristi, anche se il 90% dei genitori pensa di non dimostrarlo. Finiamola di escludere il malato dalla conoscenza di un processo di cui lui è il protagonista”. E sulla percezione che i genitori hanno dello stato di salute dei figli punta anche Elena Vanadia, neuopsichiatra infantile dell’Istituto di Ortofonologia (IdO), che cita la sindrome del bambino vulnerabile. “Parlare del bambino vulnerabile significa conoscere e saper riconoscere le vulnerabilità dello sviluppo che si possono presentare chiaramente come segni, sintomi o comportamenti in base all’età del minore e ai fattori biologici costituzionali e ambientali che ne caratterizzano il profilo di sviluppo. La sindrome del bambino vulnerabile- spiega la neuropsichiatra- ci viene in aiuto come un paradigma relativo al bambino prematuro, o al bambino nato con una grave patologia che riesce a risolvere il suo problema organico, ma che continua ad essere percepito dai genitori come un bambino più fragile, dunque vulnerabile. Questa relazione alterata sulla base di un’ansia sicuramente non idonea rispetto al dato reale- afferma Vanadia- genera e attiva nel bambino tutta una serie di comportamenti disfunzionali”.

Per dimostrarlo Gianna Palladino, logopedista dell’IdO, ha presentato due casi clinici di bambini nati pretermine in cui è emerso che “alcune vulnerabilità biologiche, alcuni fattori ambientali che possono più o meno sostenere la vulnerabiliutà, si declinano poi nel corso dello sviluppo come disturbi più strutturati, oppure rimangono delle vulnerabilità che hanno bisogno di essere sostenute dall’ambiente in modo più specifico”. Riconoscere la vulnerabilità, conclude Vanadia, “significa poter modificare una traiettoria evolutiva”.

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