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Primo studio sulle vittime di femminicidio: collo, bocca, seni e pube le zone più colpite dagli assassini

Il mezzo usato sono le mani, i calci, e le armi bianche. Utile conoscere i segni per capire se un femminicidio scampato potrà essere fatale in seguito

Pubblicato:25-11-2023 13:46
Ultimo aggiornamento:27-11-2023 10:55
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Ragazza donna sola strada
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ROMA – Le ferite inferte sul corpo di una donna come una mappa che porta dritti alla predizione e definizione di un femminicidio e forse, questo lo scopo, alla sua prevenzione. Esiste un modo ‘simbolico‘ di colpire il corpo femminile nel femminicidio, che ha un suo macabro codice, e che potrebbe diventare anche uno strumento di prevenzione quando la donna arriva al pronto soccorso o in un centro antiviolenza. E’ questa l’intuizione di Rossana Cecchi, ordinaria di Medicina legale a Modena che ha promosso una ricerca che oggi coinvolge le Scuole di Medicina Legale italiane, sostenute dalla Società italiana di Medicina Legale (SIMLA), con il fine di “studiare il fenomeno del femminicidio con un metodo scientifico valido” che finora mancava.

“Partendo- dopo un’accurata ricerca- dalla distinzione tra femminicidio definito come ‘atto per impedire l’autodeterminazione della donna’ (questa la definizione a cui si è giunti) e un omicidio di donna generico è possibile rilevare dei markers sui corpi martoriati delle vittime.

Grazie a questo lavoro di squadra sono stati studiati i corpi di 1.100 donne e i primi risultati mostrano un maggiore interessamento del collo, la zona più vulnerabile, con mezzi manuali per lo più, il viso come a voler cancellare l’identità, la bocca e il cavo orale come a zittire, il seno e anche il pube, mai interessato invece negli omicidi di donna. Il mezzo usato sono le mani, i calci, e le armi bianche. Poi c’è l’over killing quando appunto vengono inferti colpi eccedenti quelli sufficienti”. Un quadro che, come ha spiegato la professoressa Cecchi alla Dire, deve servire a intercettare da subito, “se una donna viene al centro antiviolenza con i denti rotti, lo strangolamento, le labbra spaccate a riconoscere in tempo questi segni come markers di prevenzione“: a dirle, in buona sostanza, che sono quelli i segni del femminicidio scampato che potrà esserle fatale la seconda volta.


Uno studio inedito che è partito “dal buio. Tre anni fa- ha ricordato la docente- abbiamo deciso di studiare gli omicidi di donna per verificare se fosse possibile, studiando la lesività e le informazioni sul reato, trovare dei markers specifici del femminicidio. Il problema riscontrato è che partivamo al buio, senza una definizione chiara: quando è che l’omicidio di donna è un femminicidio? Allora abbiamo fatto una revisione sia della normativa sovranazionale (Oms, Comunità Europea, Nazioni unite), sia della letteratura medico legale sul tema e abbiamo proposto alla comunità internazionale la definizione di femminicidio ‘quando una donna viene uccisa perchè non le viene riconosciuta l’autodeterminazione, il diritto alla libertà’. Il resto è altro. Era importante stigmatizzarlo perchè è un reato che merita una legislazione specifica: non solo hai ucciso, ma hai ucciso in quanto non hai riconosciuto la libertà“.
E’ nato così “un modello scientifico” che ha visto approfondire il fenomeno anche attraverso altre angolature con diverse figure, dallo psicologo, allo psichiatra, al sociologo, all’ingegnere mettendo a sistema un approccio transdisciplinare che ha portato alla pubblicazione di tre articoli sulla rivista scientifica Legal Medicine.

Dei tre articoli: “Uno è stato appunto dedicato alla definizione di femminicidio ed è stato accostato a determinati tipi di lesioni che le donne hanno subito per vedere se c’era una prevalenza di alcuni tipi- ha spiegato alla Dire lo psichiatra Emanuele Caroppo del Dipartimento di Salute mentale dell’Asl Roma 2 che ha preso parte al lavoro scientifico- il secondo (basato sulla casistica dell’Istituto di Medicina legale di Parma) è stato incentrato sul collegamento tra ferite e le aree del corpo che si associano di più al femminicidio e il terzo articolo è stato dedicato a chi ha commesso il femminicidio. Abbiamo fatto una review di più di 3.500 articoli scientificinegli ultimi 10 anni- ha spiegato lo specialista primo firmatario dell’articolo- per capire se questi soggetti avessero disturbi psichiatrici, un’ ipotesi che i risultati hanno pressochè scartato evidenziando un nesso di causalità estremamente debole e non significativo dal punto di vista statistico. E’ stato riscontrato invece che c’è un rischio incrementato con sostanze psicoattive incluso l’alcol per chi è già aggressivo. Il terzo passaggio infine è l’aspetto culturale che favorisce. E’ stata messa in croce Elena, la sorella di Giulia Cecchettin, per aver usato il termine patriarcato- ha ricordato Caroppo- ma è un dato di fatto che le culture patriarcali sono più a rischio femminicidio: questo avviene addirittura nelle isole Fijii. Non è solo questione di educazione sentimentale e rieducazione all’amore e al rispetto, ma bisogna fare un’azione di emancipazione culturale. Il femminicidio ha diversi fattori e quindi il modo corretto di studiarlo è avere un approccio transdisciplinare”.

Dà una lettura sistemica e meno legata al singolo individuo invece la sociologa coinvolta nello studio, Alessandra Sannella. Non è il patriarcato, secondo lei, la sola ragione del femminicidio. Questa è la visione che s’ispira al pensiero del filosofo Slavoj Žižek: “Da sociologa- ha dichiarato alla Dire- voglio ribadire che il fenomeno non si inscrive nelle sole dinamiche del patriarcato, ma nel rispetto e nel riconoscimento delle relazioni. Il femminicidio è una ‘violenza di struttura’, non è il singolo e quando le Istituzioni sono assenti l’individuo cade nel baratro. Lo Stato che non riesce a tutelare- ha spiegato- amplifica il fenomeno stesso della violenza. Individuo e contesto sono legati, le agenzie di socializzazione- scuola, famiglia, gruppo dei pari, religioni- tutto il contesto è disseminato e desocializzato e gli adulti devono prendersi la responsabilità di aver fallito con i diritti delle donne. Dall’analisi di 3.546 articoli scientifici (dal 2013 al 2023) attraverso una Systematic Literature Review (SLR) per valutare come (e se) i casi di femminicidio fossero correlati ai disturbi mentali- ha sottolineato Sannella- è emerso che non pensiamo ai disturbi mentali e al percorso psichiatrico per il femminicidio. I risultati dimostrano che molte forme di femminicidio emergono in tutto il mondo man mano che i valori, le credenze, gli atteggiamenti e i comportamenti delle persone si evolvono“, ha concluso.

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