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Storie dalla Moldavia: più liberi dalla tubercolosi, anche nelle carceri

Dai sogni di Valeriu all'impegno di Svetlana: l'obiettivo dell'Agenda 2030 non è più impossibile

Pubblicato:07-11-2023 11:20
Ultimo aggiornamento:17-01-2024 11:02

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FOTO: The Global Fund/Vincent Becker

CHISINAU (Moldavia) – “Mi piace un sacco ideare e sviluppare videogiochi” sussurra Valeriu, provando a tirarsi su dal letto. È una mattina d’autunno. Oltre la finestra d’ospedale brillano le foglie della Moldavia color rame: c’è una speranza nuova, resistente alla tubercolosi, e allora bisogna crederci. Lui, Valeriu, ha 18 anni e fino a poco tempo fa stava male. “In tre mesi avevo perso cinque chili” racconta. “Tossivo e la notte sudavo, ma pensavo fosse solo il caldo dell’estate”. Il ragazzo non può alzarsi ancora dal letto perché ha contratto una tubercolosi spinale che ha intaccato la colonna vertebrale e per questo, alcune settimane fa, è stata necessaria un’operazione chirurgica. “Non so come sono stato contagiato ma di sicuro adesso mangio bene e prendo le medicine tre volte al giorno” dice. “Voglio riprendere a studiare all’istituto tecnico appena possibile e poi diventare carpentiere”.

Sulla sedia accanto al letto, Valeriu ha un laptop, che usa per l’altra sua passione, non gli intagli del legno ma i videogiochi. Siamo a Chisinau, la capitale moldava, nell’Istituto di tisio-pneumologia Chiril Dragoniuc. Ad accompagnarci è Valentina Vilc, coordinatrice del programma nazionale di contrasto alla tubercolosi. “Questi sono anni pieni di speranza” sottolinea la responsabile. “Durante la crisi economica degli anni Novanta che era seguita al crollo dell’Unione Sovietica non avevamo i farmaci per curare questa malattia infettiva; da qualche tempo però le cose sono cambiate: dagli 8mila casi del 2015 siamo scesi a 2.300″. Annuisce Doina Russ, direttrice dell’Istituto: “Il tasso di successo delle cure è del 90 per cento; non è più impossibile centrare l’obiettivo dell’Agenda 2030, che entro quell’anno prevede che la tubercolosi sia debellata del tutto”.


Un traguardo raggiungibile a condizione che l’impegno sia condiviso. Ne è convinta Svetlana Doltu, direttrice dell’organizzazione non governativa Afi, acronimo di Act for Involvement, in italiano “agire per coinvolgere”. L’ong può contare su 50 operatori volontari ed è al lavoro in sette regioni della Moldavia, nel rispetto delle linee guida del governo e grazie al supporto del Fondo globale, un meccanismo multilaterale che sostiene i Paesi vulnerabili nella lotta contro la tubercolosi, l’aids e la malaria. Secondo Doltu, le attività cruciali sono almeno due: “Da un lato c’è l’identificazione dei casi, possibile con il lavoro di sensibilizzazione sul territorio, in modo che le persone a rischio effettuino i test presso il servizio sanitario; dall’altro c’è il rispetto rigoroso delle cure, con farmaci da assumere tre volte al giorno per un periodo di sei mesi nei casi meno complessi ma di uno o perfino due anni nell’eventualità di varianti resistenti ai farmaci”.

All’ingresso della sede di Afi, nel centro di Chisinau, s’incontrano pazienti. “Da quando sono uscito di prigione non ho più una casa” racconta uno di loro, un uomo sulla quarantina che si chiama Ivan. Gli poggia una mano sulla spalla Valeriu Coada, uno degli attivisti sociali dell’organizzazione. Spiega: “Tra i gruppi più a rischio ci sono le persone migranti, i senzatetto e gli ex detenuti, che magari hanno contratto la tubercolosi in carcere e poi sono esposti a uno stigma doppio; per la condanna giudiziaria e per la malattia, che è associata a una condizione di marginalità e di indigenza”.

Sono gli operatori di Afi il tramite con il Penitenziario numero 16, alla periferia della capitale. Superati cancelli e filo spinato si raggiunge l’ospedale dove sono assistiti i pazienti con la tubercolosi. “Mangiano carne tutte le volte che serve perché una buona alimentazione è il presupposto per poter guarire” spiega Irina Barbiros, a capo del dipartimento sanitario dell’Amministrazione nazionale dei penitenziari.
Accanto a lei c’è Vitali, 36 anni, tornato in carcere dopo una rissa. Quando racconta accarezza il pugno e, a sorpresa, spunta un sorriso. “La malattia è stata terribile ma adesso mi sento meglio” confida. “Mi è tornato l’appetito e di una cosa sono certo: quando uscirò di qui, sarò libero anche dalla tubercolosi”.

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