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Un dottore per 1.351 veneti: sindacati scoprono le falle nel sistema sanitario

La ricerca commissionata da Cgil, Spi-Cgil e Fp-Cgil regionali a Ires ha messo in evidenza severe criticità del settore sociosanitario

Pubblicato:01-03-2021 17:28
Ultimo aggiornamento:01-03-2021 17:28

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VENEZIA – Medici di medicina generale insufficienti, assistenza domiciliare integrata inadeguata ai casi più complessi, pochi posti letto nelle strutture intermedie. Non sono poche le severe criticità del settore sociosanitario veneto rilevate dalla ricerca commissionata a Ires (Istituto di ricerche economiche e sociali) da Cgil, Spi-Cgil e Fp-Cgil del Veneto, curata da Barbara Bonvento con la collaborazione di Manuela Nicoletti e la supervisione scientifica di Vincenzo Rebba, presentata oggi dalla sede del sindacato in via Peschiera a Mestre.

“Abbiamo rilevato che la Regione Veneto, anche se mediamente ha una buona performance dal punto di vista dell’assistenza territoriale e delle cure domiciliari, e manifesta una coerenza economica rispetto alla copertura dei servizi, ha la necessità di intercettare i nuovi bisogni. E quindi di adeguare i vari asset assistenziali ad un paziente che da alcuni anni a questa parte è diventato sempre più complesso, un paziente che accanto ad una disabilità ad una condizione di non autosufficienza, di fragilità, possiede un certo numero di patologie croniche e necessità di un intervento mirato sulle sue necessità assistenziali”, spiega Bonvento.

“Il lavoro di ricerca ha messo in evidenza criticità e carenze dell’intera filiera dell’assistenza territoriale, sicuramente accentuate dalla pandemia che stiamo attraversando ma che erano preesistenti”, aggiunge Paolo Righetti, della segreteria regionale Cgil. “Serve un salto di qualità, a partire dalla piena attivazione delle strutture intermedie, la piena attivazione di tutte le Usca, un processo di riorganizzazione urgente di tutto il sistema della residenzialità e il potenziamento della filiera dell’assistenza domiciliare”, continua.


I limiti e le criticità del sistema veneto “hanno reso non efficiente ed efficace l’azione soprattutto nella cura degli anziani, che sono quelli che hanno pagato il prezzo più alto al covid”, interviene Elena Di Gregorio, segretaria Spi, che cita “la carenza dei medici di base, con alcune zone che sono completamente scoperte e un numero di pazienti eccessivo che non consente una cura adeguata, un’assistenza domiciliare integrata totalmente inadeguata a garantire permanenza e cura a casa”, “l’inadeguatezza delle Rsa, che vanno riviste con l’inserimento di personale specialistico” e un nuovo “sistema di finanziamento e accreditamento”, perché oggi “troppi anziani devono pagarsi interamente le rette perché la Regione non le finanzia in maniera adeguata”.

Venendo ai dati della ricerca, in Veneto, i medici di base hanno mediamente 1.351 assistiti pro capite, “uno dei numeri più elevati a livello nazionale”. Il 49,7% dei medici di medicina generale ha oltre 1.500 assistiti, contro il 34% di media nazionale. E il 70% dei dottori un’anzianità di laurea di oltre 27 anni. “Valutando l’eccesso di mortalità durante la prima ondata di coronavirus, quindi fino a giugno, confrontandola con la media dei cinque anni precedenti, la variabile più significativa tra i territori è il fatto di avere un elevato numero di assistiti per medico di medicina generale: l’eccesso di mortalità tende a essere più concentrato dove c’è un numero maggiore di massimalisti” e questo “evidenzia come la carenza di dotazione di medici per le cure primarie possa essere un fattore nell’avere poi un esito negativo della malattia”, afferma Rebba. E Bonvento aggiunge che i dati Istat dimostrano che lo stesso vale per il personale delle case di riposo: “Le strutture che hanno maggior organico e maggior qualità dell’assistenza hanno avuto più successo nel limitare i decessi durante la pandemia”.

Tornando ai medici di base, il 21,1% di quelli veneti è inserito all’interno delle medicine di gruppo integrate, anche se la percentuale varia molto nelle diverse Ulss, dal 40,3% della Ulss 7 al 10,8% della Ulss 4. Passando all’assistenza domiciliare integrata (Adi), in veneto gli over 65 assistiti sono il 3,48% (nel 2018), conto il 2,81% di media nazionale. Gli over 55 sono poi il 5,81%, contro una media nazionale del 4,62%. Il 52% dei casi trattati riguarda interventi con intensità assistenziale a livello base, il 23% degli interventi prevede un numero di accessi al massimo un giorno ogni tre, un altro 12% è relativo ad interventi che prevedono un’assistenza più intensiva. I livelli di intensità assistenziale sono “inferiori rispetto a quelli rilevati a a livello nazionale nel 2017” e “in misura più marcata rispetto alle altre Regioni è evidente il numero esiguo di ore per assistito erogate, che, nella Regione Veneto, è circa di sei ore per caso trattato, rispetto ad una media nazionale di 20”, a fronte di parametri di bisogno dei servizi Adi in linea con la media nazionale, si legge nello studio. Le ore di accesso all’assistito da parte del personale infermieristico, infine, sono cinque contro una media nazionale di 13, con nove accessi contro 17, mentre gli altri operatori dedicano mediamente un’ora ad assistito contro una media nazionale di quattro.

Per quanto riguarda le strutture intermedie, l’attivazione “non è in linea con la programmazione e, soprattutto, non è ad integrazione dei posti letto ospedalieri”, evidenzia la ricerca. Il numero dei posti letto non è conforme allo standard definito a livello regionale, pari a 0,6 posti letto ogni 1.000 abitanti sopra i 45 anni, ed è pari ad appena il 62% dei posti letto programmati.

Il capitolo dedicato alle Rsa evidenzia che il fondo per la non autosufficienza “non è adeguato al fabbisogno effettivo, coperto al 70% dalle impegnative di residenzialità”, mentre quello relativo all’assistenza ospedaliera registra una “riduzione del numero totale dei posti letto pubblici” tra il 2013 e il 2019, mentre i posti letto privati sono invece aumentati. Ciò nonostante i posti letto privati di area medica e chirurgica siano in realtà diminuiti, a fronte di un potenziamento dell’area riabilitativa. “Volendo uscire da una valutazione meramente settoriale, ma all’interno di un percorso che va dall’ospedale al territorio e ritorno, e proprio per dare significato al concetto di integrated care, si evidenzia come il mancato potenziamento delle strutture territoriali abbia contribuito a rendere più complessa la gestione del paziente in ambito ospedaliero perché ha determinato, nel corso degli anni, un allungamento della degenza ospedaliera e un ampliamento del fenomeno dei bed blocker”, ovvero dei letti occupati da pazienti in condizioni di dimissibilità ma non ancora dimessi, e dei “ricoveri inappropriati in osservazione breve intensiva all’interno dei dipartimenti di emergenza urgenza”.

Tra il 2013 e il 2018 il personale sanitario “si è progressivamente ridotto, e per la parte medica risulta inferiore alla media nazionale”, con 19,2 operatori per 10.000 abitanti rispetto a 22,7 nelle strutture pubbliche ed equiparate e 5,2 invece di 14,7 nelle private accreditate. Nelle Rsa il personale infermieristico è appena il 5,7%, contro il 16,5% a livello nazionale, quello medico è l’1,1% contro l’1,5% a livello nazionale, e quello di area riabilitativa è il 3,1% contro il 4% a livello nazionale.

“La finalità della ricerca è di avere elementi scientifici e approfonditi per confrontarci con Regione, Ulss ed enti locali”, conclude Righetti, evidenziando la volontà di mantenere attivo “un osservatorio” e di portare avanti “un aggiornamento continuo”.

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