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Ucraina, il medico: “Rinunciare al Donbass sarebbe come sacrificare un figlio”

Aleksandr Petrovich Vozovik: “Grazie all'Occidente per gli aiuti, ma basta avere paura di Putin”

Pubblicato:28-03-2022 11:25
Ultimo aggiornamento:28-03-2022 12:01

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ROMA – È alla sua terza guerra Aleksandr Petrovich Vozovik, medico di famiglia a Sloviansk, nel Donbass. Nato nel 1976 in Abcasia, repubblica separatista riconosciuta da Mosca, all’estremità occidentale della Georgia, allo scoppio del primo conflitto abcaso-giorgiano, nei primi anni Novanta, fugge dalla sua terra insieme ai genitori per trasferirsi nell’Ucraina orientale. Ma è proprio qui, al confine con la Russia, che nel 2014 cominciano nel Donbass pesanti scontri tra i combattenti filorussi finanziati e armati dalla Russia e l’esercito ucraino. Questa volta però Aleksandr, nel frattempo diventato papà di due bambini, decide di rimanere con la sua famiglia nel Paese che lo ha ospitato. E lo fa con convinzione, così tanta che ancora oggi, a 33 giorni dalla nuova invasione dell’Ucraina da parte della Russia, non vuole per nessuna ragione abbandonare il Donbass, ma proseguire ad esercitare con vocazione la sua professione, all’occorrenza anche nella sua abitazione, dove ha il necessario per curare chi si rivolge a lui. Questo a differenza di molti altri suoi colleghi medici, la maggior parte, che hanno invece optato per la fuga, e nonostante la paura di vivere ogni giorno sotto il suono dei bombardamenti e di non farcela.

I genitori di Aleksandr Petrovich Vozovik

“Se sarò ancora vivo, volentieri”, aveva detto senza ironia Aleksandr alla Dire quando gli aveva proposto questa intervista, ancora scosso dalla notizia, per fortuna poi rilevatasi infondata, della morte della mamma, costretta con il padre, questo è vero, a nascondersi in un rifugio per quindici giorni senza cibo e acqua. Sebbene sia spaventato dalla guerra, soprattutto dall’idea di non riuscire a proteggere i suoi figli, una ragazza e un ragazzo, che oggi hanno rispettivamente 15 e 22 anni, Aleksandr comunque non molla, convinto che l’Ucraina alla fine vincerà, senza neppure perdere alcuni dei suoi pezzi, primo fra tutti il Donbass.

Dottor Vozovik, qual è attualmente la situazione a Sloviansk, la città in cui vive?


“Nella nostra città al momento non ci sono operazioni militari, ma la situazione può cambiare ogni giorno da un momento all’altro. Noi ci troviamo a 30 chilometri di distanza dal luogo dove sono in corso le operazioni militari, sentiamo continuamente le esplosioni e le bombe purtroppo a volte arrivano anche da noi. C’è una guerra e abbiamo tutti tanta paura, però non andiamo nel panico”.

Parlando di assistenza sanitaria, gli ospedali sono ancora tutti attivi a Sloviansk? Dove si curano le persone?

“Per fortuna fino ad oggi nessuna struttura sanitaria è stata bombardata, gli ospedali sono tutti aperti e il personale medico cerca di dare il massimo per soddisfare le esigenze dei pazienti. Ma c’è anche da dire che non appena è iniziato il conflitto tanti medici sono andati via da Sloviansk, così quelli rimasti si danno molto da fare per essere all’altezza di aiutare tutte le persone che hanno bisogno di cure. Questo è possibile anche grazie agli aiuti umanitari che riceviamo. Per quanto mi riguarda, ogni giorno continuo ad andare nel centro di medicina di famiglia dove lavoro. A volte presto assistenza anche in casa ai pazienti che hanno necessità o particolari urgenze”.

Ha mai pensato di lasciare il Donbass?

“No. Per me questa è la terza guerra. Io sono nato in Abcasia, in Georgia, e quando nel 1991 iniziò il conflitto nella mia terra mi trasferii con i miei genitori in Ucraina, perché era l’unico posto sicuro dove non avremmo mai pensato che iniziasse una guerra. Nel 2014, quando invece è iniziata la guerra anche in Ucraina, sono voluto restare perché in quel momento mi sentivo utile. Anche adesso non penso di andare via, ma di rimanere qui fino alla fine. Sono un medico e ho tutto il necessario per offrire soccorso alle persone anche in caso di emergenza”.

C’è stato un momento in cui ha avuto particolarmente paura?

“Sì, c’è stato. Ho due genitori anziani, di 66 e 73 anni, che per quindici giorni sono stati costretti a nascondersi in un rifugio, in isolamento, a causa delle bombe. Non avevano più acqua né cibo con loro e non potevano uscire. Fortunatamente sono sopravvissuti. Il 3 marzo, però, ho vissuto un momento davvero molto difficile: mi avevano detto che mia mamma non ce l’aveva fatta, invece la notizia grazie al cielo era infondata. Per il resto, penso a proteggere anche i miei figli, che oggi hanno 15 e 22 anni. Sono una femmina e un maschio”.

Questione Donbass e filorussi. Ci aiuta a fare un po’ di chiarezza? Quanti sono gli ucraini che auspicano una annessione alla Russia?

“Nessuno qui si è mai posto il problema che il Donbass debba andare alla Russia. Il Donbass ha sempre fatto parte dell’Ucraina, il Donbass è Ucraina. Non abbiamo mai pensato diversamente. Aggiungo che io sono russo e parlo il russo meglio dell’ucraino, mi capita quindi di parlare con russi miei conoscenti e, almeno tra di loro, nessuno ha mai pensato di dover cambiare qualcosa”.

Eppure alcuni sostengono la necessità di lasciare il Donbass nelle mani della Russia per far terminare il confitto. Lei cosa ne pensa?

È come se un padre con due figli fosse costretto a sacrificarne uno per salvare l’altro. Io non lo farei mai. Non è questa la soluzione. Il Donbass è tutto dell’Ucraina e l’Ucraina deve rimanere intera”.

Cosa si sente dire all’Occidente? E a Putin?

A Putin non voglio dire niente, lo considero una persona malata, non capirebbe. Voglio invece ringraziare molto l’Occidente per tutto l’aiuto che stiamo ricevendo. Però penso anche che potrebbe fare molto di più, se non fosse spaventato dalla Russia. Mi auguro allora che un giorno l’Occidente possa perdere questa paura nei confronti della Russia”.

Come andrà a finire secondo lei questa guerra?

Con la vittoria dell’Ucraina. Non solo lo speriamo, ma ne siamo convinti”.

(Grazie alla traduttrice Lidiia Churiuk, fondatrice dell’Associazione Nalyda, organizzazione creata per aiutare i bambini, i ragazzi e i giovani che hanno difficoltà ad accedere alle cure, in Italia e nel mondo).

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