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L’ambientalista congolese: “L’incoerenza del nord del mondo non vanifichi la Cop15”

Guillaume Kalonji, di Fridays for future nei Paesi più colpiti dalla crisi climatica: "Non si cambia se si finanzia anche l'industria fossile"

Pubblicato:27-12-2022 18:33
Ultimo aggiornamento:28-12-2022 17:39
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ROMA – Dall’impegno emerso alla Conferenza delle Nazioni Unite sulla biodiversità 2022 (Cop15) che si è conclusa in Canada “è nato sì qualcosa di nuovo, che forse però, potrebbe non portare da nessuna parte“. Numerose infatti le incongruenze, a partire dal fatto che “i governi che finanziano le compagnie dei combustibili fossili che distruggono il pianeta sono gli stessi che siedono al tavolo dei negoziati per salvarlo”. All’agenzia Dire lo denuncia Guillaume Kalonji, attivista di 25 anni nativo della Repubblica democratica del Congo, fondatore della filiale locale del movimento ambientalista africano Rise up movement.

OBIETTIVI ‘STORICI’, MA DOPO?

La Cop15 che si è svolta a Montreal a dicembre ha raggiunto degli obiettivi definiti “storici” da diversi media e analisti concordanti. Il summit ha portato alla creazione del Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework (Gbf), una piattaforma strutturata in quattro macro obiettivi e 23 target. Lo strumento prende il nome dalle due città che hanno ospitato la prima e la seconda parte della Cop15, rispettivamente in Cina, a ottobre, e poi in Canada. Il governo di Pechino è anche quello che ha presieduto le negoziazioni che hanno portato al documento.

Fra gli obiettivi principali evidenziati nel Gbf, tutti col 2030 come data limite, il raggiungimento della “conservazione e gestione efficace di almeno il 30% delle terre emerse, delle acque interne, delle zone costiere e degli oceani del mondo; il riconoscimento dei territori e delle pratiche native e tradizionali; la riduzione quasi a zero della perdita di aree ad alta importanza per la biodiversità, compresi gli ecosistemi ad alta integrità ecologica; la graduale eliminazione o modifica dei sussidi che danneggiano la biodiversità con una quota di almeno 500 miliardi di dollari all’anno; la messa a disposizione di almeno 200 miliardi di dollari all’anno in finanziamenti nazionali e internazionali relativi alla biodiversità da tutte le fonti, pubbliche e privati”. E ancora: “l’aumento dei flussi finanziari internazionali dai Paesi sviluppati a quelli in via di sviluppo, in particolare i Paesi meno sviluppati, i piccoli Stati insulari in via di sviluppo e i Paesi con economie in transizione, ad almeno 20 miliardi di dollari all’anno entro il 2025 e ad almeno 30 miliardi di dollari all’anno entro il 2030” e “il dimezzamento dello spreco alimentare globale e la riduzione significativa del consumo eccessivo e della produzione di rifiuti”.


PROSPETTIVE COMPLESSE

Kalonji, che parla da Bukavu, nella provincia orientale del Sud Kivu, premette: “Essere riusciti di nuovo a richiamare rappresentanti da tutto il mondo con l’obiettivo di salvare la biodiversità è un fatto che come attivisti accogliamo con favore”. Il punto però, spiega l’ambientalista, “è che quello dell’implementazione di quanto raggiunto resta un problema enorme: è davvero sconfortante– denuncia l’attivista- sappiamo già in anticipo che sarà molto difficile raggiungere gli obiettivi di conservazione emersi a Montreal”.
Secondo Kalonji i due problemi principali sono “il reperimento delle finanze necessarie per rispettare quanto stabilito dal Gbf” e poi il fatto che “molti Paesi finanziano la distruzione dell’ambiente e la deforestazione portata avanti dalle industrie fossili”.

SOLDI PUBBLICI A CHI INQUINA

Stando a quanto riportato in un documento dalle organizzazioni Oil Change International e Friends of the Earth Usa, fra il 2019 e il 2021 i Paesi del G20 e le banche multilaterali di sviluppo hanno concesso almeno 55 miliardi di dollari all’anno per progetti di gas, petrolio e carbone. Una cifra questa, che rappresenta un calo rispetto al triennio 2016-2018 ma ancora il doppio di quanto speso per le energie rinnovabili.
Disparità che risultano ancora più stridenti se viste dal Congo, Paese in via di sviluppo che ospita più del 60 per cento del territorio della seconda più grande foresta pluviale del mondo dopo l’Amazzonia, quella del bacino del fiume Congo.

“Penso che i fondi andrebbero indirizzati verso i Paesi dove si trovano gli ecosistemi da conservare, penso a esempio alla nostra foresta”, afferma Kalonji, che è anche esponente di Fridays for future Mapa, quella componente del movimento giovanile ambientalista internazionale di base nei Paesi più colpiti dai cambiamenti climatici, i Most Affected People and Areas, appunto Mapa. “Putroppo però- riprende il ragionamento l’attivista- da quello che si apprende i Paesi del sud del mondo riceveranno solo 30 miliardi di dollari invece dei 100 che sarebbero necessari”.

Kalonji chiude il cerchio della sua argomentazione: “Questo è molto irritante, soprattutto perché sappiamo che i Paesi del nord del mondo destinano miliardi di dollari alle compagnie petrolifere che distruggono la nostra terra”.

L’OPPOSIZIONE DI KINSHASA

Il nodo dei finanziamenti ai Paesi in via di sviluppo e del contributo di quelli ad alto reddito è stato uno dei più complessi da sciogliere alle negoziazioni della Cop15, soprattutto per via dell’opposizione proprio del governo congolese. La ministra dell’Ambiente di Kinshasa, Ève Bazaiba, aveva inizialmente espresso anche il suo rifiuto dell’accordo, pur non ufficialmente. La rappresentanza congolese ha infine chiesto di registrare il suo parere discordante su alcuni punti.

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