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Strage Bologna, i periti: “L’interruttore non è quello della bomba”

I risultati della perizia chimico-esplosivistica sull'interruttore trovato tra i resti della strage confermano che non era legato all'ordigno

Pubblicato:22-10-2019 13:10
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 15:52
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BOLOGNA – L’interruttore trovato tra le macerie ai Prati di Caprara “parrebbe non avere un ruolo nella strage del 2 agosto 1980”, come “è reso ancor più evidente dalla perizia del professor Marco Boniardi” del Politecnico di Milano. Tuttavia, precisano gli esperti Danilo Coppe e Adolfo Gregori nell’integrazione alla perizia chimico-esplosivistica disposta dalla Corte d’Assise di Bologna nell’ambito del processo per concorso nella strage a carico dell’ex Nar Gilberto Cavallini, “siamo convinti che fosse doveroso investigare approfonditamente sull’oggetto”. Questo perché, spiegano, l’interruttore “presenta similitudini con ordigni” utilizzati in altri attentati, e “in ogni caso era frequente l’uso di sicurezze di trasporto”.

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Ad affermare per primi che l’interruttore oggetto della perizia non poteva essere quello della bomba del 2 agosto erano stati i periti della Procura, Paolo Zacchei e Paolo Egidi, che nel corso dell’udienza del 23 settembre avevano rilevato che l’interruttore “non è di ghisa, come ipotizzato in un primo momento, ma di alluminio“, e dunque “se fosse stato vicino alla bomba si sarebbe fuso“, mentre invece l’oggetto trovato ai Prati di Caprara è soltanto deformato. In ogni caso, i due consulenti di parte avevano precisato di voler “attendere la fine delle analisi” da parte di Coppe e Gregori “prima di trarre delle conclusioni”. E nella relazione depositata ieri i due esperti incaricati dalla Corte confermano che, con tutta probabilità, l’interruttore non è quello della bomba.


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In particolare, oltre a fare riferimento agli esiti dell’ulteriore perizia sull’oggetto, Coppe e Gregori scrivono che dall’analisi chimica “per la ricerca di esplosivi sull’interruttore”, i cui esiti “sono difficilmente interpretabili poiché il reperto, dal momento del suo rinvenimento, non è stato conservato con gli stessi criteri di salvaguardia dalle contaminazioni seguiti per gli altri reperti da sottoporre ad analisi chimica”, si può concludere che “le tracce chimiche trovate sono da attribuirsi a contaminazioni di varia natura“. Infatti, proseguono, “non si può escludere una sua accidentale contaminazione”.

Tuttavia, i due esperti ribattono alle affermazioni di Zacchei e di Egidi sulla mancata fusione dell’interruttore, spiegando di “non condivide l’idea che l’alluminio, avendo un punto di fusione basso, si disintegri certamente se nei pressi di un’esplosione”. Questo perché, affermano, anche se “è vero che la temperatura di una detonazione è due o tre volte quella di fusione dell’alluminio, tale onda termica ha la durata di pochi millesimi di secondo”, quindi “c’è differenza fra temperatura emanata e temperatura percepita dagli oggetti”. Inoltre, proseguono, “se l’interruttore fosse stato posto all’esterno dell’involucro dell’ordigno o avesse avuto fra l’esplosivo e sé stesso una serie di indumenti costipati, si potrebbe tranquillamente pensare ad una preservazione del metallo, che peraltro appariva così ossidato da far pensare anche ad un’esposizione ad alta temperatura”. Del resto, concludono, “è frequentissimo trovare, dopo i lavori di mina, la parte estrema di un detonatore , anch’esso di alluminio, che pure era a ridosso delle cariche esplosive”.

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RESTI RIESUMATI CHE NONO SONO DI FRESU POTREBBERO ESSERE DI ALTRE 9 VITTIME

“Le analisi del Dna hanno stabilito che i resti esumati, in particolare una mano ed una parte di volto con scalpo, non appartengono a Maria Fresu“, i cui resti potrebbero essere stati “ripartiti in altre bare” e che, attualmente, è di fatto impossibile ritrovare. Tuttavia, nell’integrazione alla loro perizia chimico-esplosivistica, depositata ieri, gli esperti Danilo Coppe e Adolfo Gregori, incaricati dalla Corte d’Assise di Bologna nell’ambito del processo per concorso nella strage del 2 agosto 1980 a carico dell’ex Nar Gilberto Cavallini, non arrivano a ipotizzare l’esistenza di un’86esima vittima dell’attentato. Questo perché, spiegano, i resti riesumati lo scorso marzo nel cimitero di Montespertoli, pur non essendo di Maria Fresu, potrebbero appartenere ad altre vittime della strage, visto che, come già evidenziato nella loro precedente relazione, all’epoca “la foga (giustificata) di cercare qualcuno vivo, ha prodotto azioni che hanno sicuramente determinato la dispersione ed il mescolamento di parti organiche” ed è quindi “estremamente probabile che parti di corpi dilaniati siano stati proiettati in prossimità di altri corpi e ciò ha sicuramente indotto chi raccoglieva i resti ad accomunarli”, come dimostra anche “il fatto di aver trovato frammenti ossei umani nelle macerie di Prati di Caprara”. 

Nel dettaglio, scrivono i periti, “mano e volto esumati appartengono a due donne diverse, ma nessuna delle due riconducibile a Fresu”, e dall’esame dei documenti dell’epoca relativi alle 41 vittime di sesso femminile “possiamo concordare con le conclusioni cui pervenne il professor Giuseppe Pappalardo in merito ai resti umani relativi alla mano, definiti come compatibili con ‘un soggetto femminile di giovane età e di piccola statura’”. Una descrizione che “si attanaglia benissimo a quella dei resti di Antonella Ceci”.

La mano, aggiungono, potrebbe eventualmente appartenere, “tra le sopravvissute, anche a Teresa Toschi, seppur di età nettamente superiore, per la quale cui si parla genericamente di ‘spappolamento della mano'”. In relazione allo scalpo e alla maschera facciale ritenuti appartenenti, a torto, a Fresu Maria, “sempre in base a quanto risulta dalle, a volte sommarie, descrizioni effettuate al tempo nei verbali di ricognizione esterna”, Coppe e Gregori scrivono che “si possono elencare sette vittime che presentavano deformazione dell’ovoide cranico con perdita di sostanza, mai meglio specificata dal punto di vista identificativo (Flavia Casadei, Franca Dall’Olio, Berta Ebner, Enrica Frigerio, Livia Olla, Margret Rohrs e Vincenziana Sala)”.

Un dato, secondo i periti, è comunque certo, vale a dire che Fresu “non era, al momento dell’esplosione, a fianco dell’amica sopravvissuta (Silvana Lancillotto)”, a differenza di quanto quest’ultima “testimoniò a suo tempo, sicuramente in buona fede”. Infatti, spiegano, “sarebbero bastati pochi secondi (tre-cinque) di distrazione dell’amica affinchè Maria Fresu attraversasse la sala d’aspetto e si portasse dentro i cinque-sette metri dall’ordigno”.

Il volto con scalpo rinvenuto, proseguono, “doveva essere di una donna sempre all’interno dei cinque-sette metri, e se è vero che tale volto è stato trovato sui binari, è anche evidente che il corpo ad esso appartenuto era in linea col muro divisorio della sala d’attesa rispetto alla banchina ferroviaria”. Peraltro, chiosano Coppe e Gregori, “sul volto rinvenuto non c’erano tracce evidenti di combustione”. Certamente, concludono i periti, “per ritrovare le parti della povera Maria Fresu non ci sono soluzioni oggi praticabili”.

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