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NAPOLI – “Al Ceinge siamo tra i pochi laboratori europei a fornire una indagine completa del metiloma dei tumori cerebrali che viene sempre messa come supplementazione dei nostri referti in modo che il clinico possa avere tutti gli elementi possibili per stabilire l’atteggiamento terapeutico”. Lo spiega alla Dire Lorenzo Chiariotti, ordinario di patologia generale dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e responsabile del laboratorio di epigenetica del Ceinge, che sta portando avanti il lavoro insieme a Rosa Della Monica, specializzanda di genetica medica e responsabile della fase analitica, genetica ed epigenetica dei tumori cerebrali.
“I tumori cerebrali dell’adulto, i glioblastomi in particolare la cui incidenza è in costante aumento e ad oggi è stimata intorno ai 7-9 casi su 100mila individui, sono – evidenzia – tra i più difficili da aggredire, clinici e chirurghi fanno di tutto, ma abbiamo pochissime armi per cui è fondamentale avere un quadro precisissimo dello specifico tipo di tumore per ciascun paziente per poter eventualmente intervenire terapeuticamente. Fare un profilo metilomico di un tumore significa analizzarne tutto il genoma, non tanto e non solo in termini di sequenza, ma anche proprio di come è programmato il genoma di una cellula tumorale: da questo programma, che è una sorta di software, di barcode, che la cellula esprime, noi risaliamo all’origine della cellula tumorale e alla profilazione vera e propria del sottotipo tumorale”.
“Il genoma delle cellule tumorali – ancora Chiariotti – ha un obiettivo, terribile per noi, che è programmato come fanno tutte le nostre cellule. Noi, allora, andiamo ad indagare questo programma per capire esattamente cosa la cellula vuole fare, da dove origina. La speranza è che tutto questo possa darci sempre più target utili per lo sviluppo di nuovi farmaci. Uno è stato appena sviluppato e prodotto e si basa sulle indagini genetiche. L’indagine epigenetica complementa queste informazioni. Tutti i nostri dati confluiscono su banche dati internazionali, ogni volta che profiliamo un tumore lo confrontiamo con tutti quelli che sono stati fatti nel mondo”.
“La malattia di Fabry – spiega Chiariotti alla Dire – è una malattia genetica considerata rara, anche perché probabilmente i pazienti non vengono riconosciuti, ed è legata all’X, quindi i maschi sono malati, ma almeno il 30-40% delle donne esprime sintomi importanti. È una patologia per la quale, paradossalmente, esistono farmaci che sono in grado di curare o contenere molto bene la malattia, mentre è estremamente complicato trovare i pazienti”.
Al lavoro con lui in questa ricerca Teodolinda Di Risi, responsabile della fase analitica per le indagini diagnostiche e assegnista di ricerca. “La malattia di Fabry – prosegue – riguarda un accumulo lisosomiale di sostanze tossiche in tutti i tessuti, in particolare rene e cuore. Questo significa che la maggioranza dei pazienti va negli studi di cardiologia, di nefrologia, o anche altri, ma è molto difficile da riconoscere: attualmente gli strumenti per i medici per riconoscere la malattia di Fabry sono pochi perché si confonde con tantissimi altri tipi di patologie“.
Il Ceinge, sottoscrivendo un accordo con la Takeda international, sta “producendo uno screening di tutti quei pazienti che hanno dei sintomi cardiologici o nefrologici che anche lontanamente possono far sospettare, tra le altre cose, questo tipo di malattia. Noi li analizziamo tutti per cercare di identificare più pazienti possibile a cui somministrare una terapia adeguata. Spingiamo tutta la collettività dei medici – rimarca Chiariotti – a chiederci questi kit in cui ci sono degli spot, dove mettere qualche goccia di sangue del paziente, e spedirli a noi al Ceinge dove, gratuitamente, faremo un’indagine genetica, enzimatica e di accumulo per stabilire se il soggetto ha o meno la malattia di Fabry”.
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