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VIDEO | Numeri e rete dei centri antiviolenza nel Lazio, ecco il reportage di Diredonne

La prima tappa nello storico centro antiviolenza di Monteverde gestito da Differenza Donna

Pubblicato:11-03-2020 12:15
Ultimo aggiornamento:11-01-2021 17:03

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ROMA – Nel 2018 in Italia si è registrato un femminicidio ogni tre giorni, oltre 100 in un anno che si chiude con tre donne uccise nell’anti-vigilia di Natale. Ma la conta delle donne ferite a morte, quasi sempre per mano di mariti, fidanzati, compagni o ex, non si ferma e dall’inizio del 2019 sono già dieci i femminicidi. Una media di tre donne uccise a settimana.

Nasce da questi dati l’idea dell’Agenzia Dire, con il notiziario DireDonne, di dedicare il mese di marzo ad un viaggio nei centri antiviolenza del Lazio, per conoscere le storie delle ‘sopravvissute’, donne maltrattate, abusate, picchiate, costrette a fuggire per scampare alle persecuzioni di uomini violenti. E per gettare una luce sul lavoro silenzioso e costante che quotidianamente altre donne svolgono per accompagnarle fuori dall’incubo.


Il reportage è stato realizzato grazie alla collaborazione di D.i.Re-Donne in rete contro la violenza, l’associazione nazionale nata nel 2008 che oggi raccoglie in tutta Italia 116 centri antiviolenza non istituzionali – gestiti da 80 associazioni di donne – e affronta il tema della violenza maschile, secondo l’ottica della differenza di genere.

Tante le tipologie di intervento garantite dai centri, dalla collaborazione con il numero antiviolenza nazionale 1522 ai colloqui vis à vis, ai percorsi nelle strutture di ospitalità e nella fase di uscita dalla violenza.

Il Lazio, nella rete D.i.Re, è la quarta regione per diffusione dei centri antiviolenza e ne conta sei, dopo Lombardia, Toscana ed Emilia Romagna. Nel 2018 sono state 1.793 le donne accolte (1074 nuove) nei centri D.i.Re del Lazio, 991 le italiane, 336 le straniere, la maggior parte nella fascia d’età tra i 30-39 anni (253) e i 40-49 anni (253). Non sono mancate segnalazioni anche da parte di giovani (166 tra i 18 e i 29 anni) e giovanissime (16 tra i 14 e i 17 anni). La maggior parte delle donne si è rivolta ai centri per episodi di violenza fisica (706) e psicologica (562). Seguono i casi di violenza economica (161), stalking (137) e violenza sessuale (77).

Dati che vanno letti partendo dal presupposto che “la violenza fisica è sempre accompagnata da violenza psicologica- spiega all’agenzia Dire Raffaella Palladino, presidente di D.i.Re- quella domestica è la più importante e devastante. Il problema è che la violenza psicologica è difficilmente dimostrabile, anche perché le donne spesso fanno fatica anche a riconoscere quella fisica e sessuale”.

Nel Lazio “ci sono delle realtà storiche- continua Palladino- Differenza Donna che compie trent’anni, Donna L.I.S.A., il Centro Donna Lilith, che ne ha già compiuti 32. Centri che hanno fatto da volano anche ad altri con minore esperienza negli anni”. Le fonti di finanziamento dei centri sono molte e variegate: dipartimento Pari Opportunità, enti locali, comuni o ambiti territoriali, e poi la Regione Lazio e i donatori privati.

Sul rapporto con la Regione Lazio, Palladino precisa: “Ci sono sempre momenti diversi nei rapporti tra centri antiviolenza e istituzioni. A un certo punto la Regione Lazio ha fatto una sorta di accreditamento regionale dal quale, ad esempio, il centro di Frosinone era rimasto fuori per un problema burocratico e ha comportato l’interruzione dell’erogazione di risorse, che per loro è stata veramente un problema. C’è stata anche una grande interruzione nell’erogazione dei fondi della 119 (‘legge antifemminicidio’ 119/2013, ndr) un paio di anni fa. Il Lazio era una delle regioni che era rimasta più indietro nel dare le risorse che il Governo trasferisce per i centri. Siamo intervenute in tutti e due i casi. Ora le cose vanno meglio, ma dobbiamo capire con il monitoraggio a quali centri sono arrivati gli ultimi fondi, erogati da poco”.

Tra le case rifugio della rete D.i.Re, alcune sono a indirizzo segreto, collegate ma distinte dai centri antiviolenza, in linea con la tradizione delle prime strutture nate a Milano e Bologna. Altre, come quelle gestite da Differenza Donna, “adottano un’altra metodologia- spiega la presidente- e tengono insieme il centro e la casa rifugio, che a quel punto non è a indirizzo segreto e diventa un ‘presidio di operatrici'”. Alla base del paradigma della storica associazione romana, socia fondatrice di D.i.Re, “l’idea è che la sicurezza passa attraverso la rete” costruita sul territorio.

Una volta entrati in D.i.Re, sulla base dei criteri prescritti dalla Carta dei centri antiviolenza (tra cui garanzia dell’anonimato e della segretezza, rispetto dell’autodeterminazione della donna, valorizzazione delle sue risorse interne, caratterizzazione femminista), l’associazione prevede un supporto sulla formazione delle operatrici, ma anche forme di sostegno economico, specie sui progetti per l’autonomia delle donne, con l’attivazione di borse lavoro e tirocini per l’inserimento lavorativo.

“L’uscita dalla violenza verso l’autonomia è un passaggio delicato e cruciale perché è quello che fa fare il salto- chiarisce Palladino- La donna che ha avuto il coraggio di farsi aiutare per uscire dalla violenza è stata accompagnata, ma poi si trova a fare i conti con la propria vita da sola, anche se nessuna resta senza il nostro sostegno. Per questo è importante offrire un supporto economico, anche dopo”.

E chiude, richiamando la situazione politica italiana e la grande ondata di lotte femministe: “In questa fase più che mai noi che lavoriamo nei centri antiviolenza possiamo essere protagoniste, specie di fronte a politiche che vanno contro i diritti delle donne come il ddl Pillon. Finché le istituzioni non faranno dei passi concreti per combattere una discriminazione che coinvolge metà del genere umano e si continuerà ad usare il maschile plurale per definire tutto il mondo, ben venga che siano attive le donne e che siamo noi a generare il cambiamento”.























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PRIMA PUNTATA REPORTAGE DIREDONNE NEI CENTRI ANTIVIOLENZA DEL LAZIO

Nel cortile del grande edificio del centro antiviolenza di Monteverde, a Roma, ci sono un monopattino, una bicicletta e un pallone giallo e blu. Un piccolo cancello divide lo spazio dei ragazzi di un liceo artistico della Capitale, dal giardino dove i bambini ospiti della casa rifugio, gestita da Differenza Donna e finanziata dalla Regione Lazio, cercano di ritrovare, cercano di ritrovare i giochi e la serenità perduti. Anche qui, nello storico centro antiviolenza di Monteverde, gli uomini che maltrattano le donne sono per lo più compagni, fidanzati, mariti o ex mariti, in linea con il dato nazionale, per cui l’80% delle violenze avviene tra le mura domestiche o nell’ambito di relazioni sentimentali. Violenze che spesso durano anni, coinvolgendo anche minori. Nelle stanze del centro tutto sa di casa. Libri per bambini, colori e stendini, una cucina con un lungo tavolo. E poi gli uffici delle operatrici con faldoni e faldoni di “donne uscite” dalla violenza, divise per anno.

LA STORIA DI SUVADA

Tra queste c’è Suvada, 50 anni, a 17 in fuga dal Montenegro in guerra, a 27 sposa di un italiano. Approda al centro antiviolenza ‘Maree’ dopo 13 anni di violenze fisiche e psicologiche da parte del marito, e tre figli, oggi di 21, 19 e 13 anni. In otto anni, uno e mezzo nel centro, ha ricostruito la sua vita, e oggi ha un lavoro, una casa, un rapporto con i suoi ragazzi e nessuna paura di scandire il suo nome, né di raccontare la sua storia. Che poi è la filosofia del centro di Differenza Donna a Monteverde, affiliato alla rete nazionale D.I.Re-Donne in Rete contro la Violenza.

“La nostra casa rifugio non è un luogo segreto- spiega alla Dire Cristina Ercoli, responsabile della struttura finanziata dalla Regione Lazio- Da sempre c’è stata questa politica di voler essere presenti e dare visibilità. Devono essere gli uomini violenti a non avvicinarsi perché c’è una condanna sociale”. La comunità e il quartiere sono la principale protezione di uno spazio nato in difesa delle donne che trova la sua forza non nell’invisibilità, ma nel riconoscimento e in quella “rete di sinergie” sviluppata in oltre vent’anni di attività sul territorio con forze dell’ordine, associazioni, scuole.

“Questo è il primo centro nato su Roma nel 1992, ogni anno mediamente accogliamo 500 nuove donne- continua la responsabile- Dall’inizio di quest’anno 75 si sono rivolte a noi con una richiesta di aiuto”. Tra le violenze più segnalate al centro di Differenza Donna di Monteverde, “i casi di maltrattamento, circa 400 l’anno- racconta Maria Teresa Algomeda Centeno, operatrice e mediatrice culturale- e lo stalking, una sessantina di casi l’anno”.

Negli ultimi anni, poi, “sono aumentate le segnalazioni per casi di sexting“, la diffusione non autorizzata di contenuti video o foto scambiati con il partner in un rapporto di fiducia. A mettersi in contatto con il centro sono soprattutto “donne italiane- sottolinea Centeno- ma abbiamo anche un numero significativo di donne straniere”.

Gli otto posti della casa rifugio “sono sempre al completo”, precisa Ercoli, che gestisce il centro con oltre dieci figure professionali, dall’assistente sociale all’educatrice, dalla psicologa alla ludo-pedagogista, dalle operatrici alle volontarie, alle tirocinanti. Donne che aiutano altre donne.

Garantiamo un ascolto h24– spiega alla Dire Marta Ricci, operatrice nel centro di Monteverde- Se la donna è disponibile ad avere un primo colloquio apriamo una scheda in cui raccogliamo le narrazioni del vissuto di violenza di ognuna, per dare modo all’operatrice che la accoglierà di dare continuità e sostegno ad ogni donna, nella sua unicità”. Colloqui che avvengono in una stanza dedicata, luminosa e riservata, in cui la donna può sentirsi libera e protetta e narrare il suo vissuto. Una fase cruciale per l’inizio del suo percorso di uscita dalla violenza, che le permette di “riprogettare se stessa”, a partire dalla molla che l’ha portata a ribellarsi. Suvada ha deciso di farlo, dopo 13 anni di “schiaffi e calci”, per proteggere i suoi figli. “Mi aveva rinchiuso in casa, non potevo avere amicizie, non ero libera dal punto di vista lavorativo, mi aveva allontanata dalla mia famiglia- racconta- Pensavo di aver trovato l’uomo più buono del mondo, ma quando sono rimasta incinta della prima figlia ha cominciato ad urlare sempre più spesso. In un primo momento ho pensato che fosse colpa mia”.

Un meccanismo ricorrente, quello della colpevolizzazione che, spiega Marta Appi, tirocinante del centro laureata in Psicologia, si attiva perché le donne “pensano di essere responsabili della violenza, di aver fatto qualcosa di sbagliato che giustifica i comportamenti del maltrattante”. “Questo è l’unico reato- chiarisce Emanuela Mereu, assistente sociale- che la donna è costretta a dimostrare”.

“È stato molto difficile uscirne, ci sono stati momenti in cui ho pensato di togliermi la vita- ricorda con la voce rotta dall’emozione Suvada- Io sono straniera e lui mi minacciava spesso che mi avrebbe preso i figli”. La svolta all’ennesima umiliazione: “Un giorno ho visto mio figlio che stringeva i pugni quando ha visto il padre che mi ha sputato, cominciando ad umiliarmi. Ho preso tutti e tre i miei figli e mi sono rivolta agli assistenti sociali, ma non l’ho denunciato”.

Assistenza legale, inserimento lavorativo, sostegno alla genitorialità, ma anche inserimento dei minori nelle scuole e accompagnamento agli incontri protetti stabiliti dal giudice con i padri. Il sostegno alla donna offerto dalle operatrici è a 360 gradi e si innesta su “una lettura del fenomeno- chiarisce Ercoli- che si basa sull’empowerment” e sulla necessità “di declinare tutto in un’ottica di genere, anche i saperi professionali” delle operatrici. “Otto anni fa mi sono riprogettata fuori dalla violenza- conclude Suvada- Al centro ho trovato la forza di riprendermi la mia vita, la mia libertà, la mia dignità, il rapporto con i miei figli che nella casa non c’era. Oggi posso dire che sono felice

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