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Sindrome di Medea, la psichiatra: “I padri uccidono nel 64,2% dei casi”

Adelia Lucattini alla Dire: "L'uccisione del figlio è l'ultimo anello di una lunga catena di vessazioni verso l'ex partner"

Pubblicato:20-06-2022 18:43
Ultimo aggiornamento:21-06-2022 12:40
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Di Laura Monti

ROMA – Si terranno mercoledì pomeriggio presso la Cattedrale di Catania i funerali della piccola Elena Del Pozzo, la bambina di cinque anni uccisa dalla madre a Mascalucia. Martina Patti, che ha confessato l’omicidio dopo aver tentato di inscenare un rapimento, non ha ancora reso noto il movente ma gli inquirenti sospettano che a portare la ventiquattrenne a compiere il gesto estremo possa essere stata “una forma di gelosia nei confronti dell’attuale compagna dell’ex convivente, non tollerando che alla stessa si affezionasse anche la propria figlia”, come ha scritto la Procura di Catania in una nota. Se così fosse, quello della donna potrebbe configurarsi come un caso di ‘sindrome di Medea’, una forma di figlicidio compiuto come atto di vendetta nei confronti dell’ex partner.

“Più che di sindrome si parla di ‘complesso di Medea’ e non si tratta di un disturbo classificato fra le malattie mentali e, in psichiatria forense, non è catalogata come patologia psichiatrica”, ha spiegato alla Dire la psichiatra e psicoanalista della Società psicoanalitica italiana Adelia Lucattini. In questi casi, ha proseguito la psichiatra, “la sofferenza può scaturire in omicidio ma a volte sono percosse, sofferenze psicologiche deliberatamente pensate per il coniuge. In ogni caso, l’uccisione del figlio è l’ultimo anello di una lunga catena di vessazioni verso l’ex partner”. Questo accade perché, agli occhi del genitore, il figlio viene “visto come un tutt’uno con il partner, un alleato del partner e un nemico. È come se si uccidesse un’unica entità”. Nella maggior parte dei casi, è proprio quando l’ex partner trova un’altra persona che si scatena la furia, ma può accadere anche “con gravidanze non volute, frutto di stupro o vissute come strategia del partner per ‘incastrare'”.


Il nome di questo complesso viene dalla figura mitologica di Medea, che uccise i propri figli per vendicarsi dell’abbandono di Giasone, deciso a sposare un’altra donna. Già nel 1927 lo storico Giuliano Ferrero definiva questo complesso come un “bisogno di vendicarsi sul bambino del marito infedele” da parte delle mogli, mentre lo psichiatra forense canadese Philip Resnick nel 1969 parlava di “vendetta del coniuge”, a prescindere dal genere di appartenenza. Infatti, se il nome lascia pensare a un disturbo tutto femminile, “andando a vedere i dati, risulta che, se parliamo di figlicidi in generale, sono proprio gli uomini che uccidono di più”, ha illustrato Lucattini.

Secondo i dati Eures, infatti, dal 2010 a oggi in Italia sono stati commessi 268 figlicidi, di cui il 64,2% compiuti da padri. Il rapporto, però, si capovolge quando a essere ucciso è un bambino sotto i 5 anni (è accaduto 61 volte): in questo caso, a compiere l’infanticidio è la madre nel 57,5% dei casi. Il motivo prevalente di quest’ultimo dato non sembra essere essere la ‘sindrome’ di Medea, ma piuttosto il fatto che “da 0 a 5 anni si verificano le depressioni post partum, che colpiscono maggiormente, ma non solo, le madri”. Nel periodo dopo il parto, infatti, si possono avere tre situazioni: “I cosiddetti ‘baby blues’, che hanno tutti per circa tre settimane; la depressione fino a 36 settimane dalla nascita e una forma complicata di depressione post partum con sintomi psicotici. In questo caso, si ha una depressione maggiore con deliri di rovina e si uccidono i bambini per salvarli da presunte malattie, dalla fine del mondo”, ha detto ancora Adelia Lucattini. 

In questi contesti patologici, può accadere che un genitore uccida il proprio figlio piccolo per poi suicidarsi: “È una dinamica che si verifica nel caso della psicosi post-partum”, ha commentato la specialista. Inoltre, dopo l’infanticidio, “gli uomini spesso non si nascondono e, se fuggono, si lasciano catturare, mentre le donne nella maggior parte casi o sono confuse (e si tratta di psicosi) o dissimulano per vergogna”.

Tra padri e madri si riscontra una differenza anche nell’arma usata per il delitto: sempre secondo i dati Eures, se i padri usano nel 42,4% dei casi un’arma da fuoco, a fronte dell’8.3% delle donne, la modalità principale per le madri è l’omicidio con arma da taglio come coltelli da carne o da pane (24.6% dei casi) o per soffocamento (19.8%). Tutta un’altra storia è invece quella che ha a che fare con i figlicidi legati al femminicidio: “Qui siamo nel campo della paranoia, del disturbo narcisistico di personalità, della cultura del possesso. È un’altra dinamica mentale”.

Ma è possibile prevenire queste situazioni? Per quanto riguarda la depressione e la psicosi post-partum, è innanzitutto importante prestare attenzione ai fattori di rischio: “Di solito si tratta di persone che soffrono di qualcosa già da prima. Se sono in cura, di solito si fa un progetto per interrompere e poi riprendere appena possibile i farmaci e non si hanno problemi”. Bisogna poi prestare attenzione “a precedenti gravidanze con depressioni post-partum, anche senza psicosi e alla storia familiare di depressione in generale: se si ha una qualsiasi familiarità, va detto. Poi ci sono dei fattori di stress che influiscono anche in persone altrimenti non predisposte: il conflitto con il partner, la perdita del lavoro, malattie, il neonato con gravi malformazioni, aborti ripetuti, lutti, difficoltà economiche. Influisce molto anche un partner che soffra a sua volta di depressione”.

Determinanti sono anche le condizioni successive al parto: “Se il neonato è in terapia intensiva o per qualche ragione è in ospedale lontano dai genitori o se non si ha sostegno dal partner o dalla famiglia. Rimanere sempre sole con il bambino a casa mette fortemente a rischio”. Per quanto riguarda gesti estremi come quello di Catania, invece, “di per sé non sono prevedibili”. Ma anche questi, in parte, “si possono prevenire” sostenendo i genitori in un momento così delicato. “Mettiamo in cura tutti i genitori? Perché no, se c’è il welfare. Si potrebbero offire 20 sedute di terapia a tutti i genitori appena nasce il bambino. Certi gesti non si possono prevedere, ma si può fare tutto il possibile per la prevenzione”, ha concluso la psichiatra. D’altra parte, non molto lontano da noi, in Svezia, si offre un anno gratuito di psicoterapia madre-figlio a tutte le neomamme. 

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