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FOTO| VIDEO | I Cure chiudono il Firenze Rocks, e gli anni Ottanta risorgono

La band di Robert Smith e Simon Gallup ha suonato una trentina di canzoni, ripercorrendo la loro carriera

Pubblicato:17-06-2019 16:31
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 15:25

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FIRENZE – Diciamo subito che la formula del Festival porta con sé tutta una serie di elementi che tolgono un bel po’ di poesia, a partire dal fatto che alla Visarno Arena, per Firenze Rocks, si poteva entrare solo con una bottiglia d’acqua da mezzo litro, in una giornata lunga e rovente. E che poi, per poterne comprare, bisognava anche procurarsi i “gettoni”, i token, che venivano venduti obbligatoriamente a botte di 16 euro. I token, poi erano l’unico modo per poter avere gelati, bibite, birra o cibo. Senza contare i bagni: per poter usare quelli con meno fila e più pulizia, si pagava. 

Messe da parte queste questioni, passiamo al “core” del Firenze Rocks, con l’ultima data, che vedeva come headliner i Cure, che hanno attaccato britannicamente alle 20.59, dopo che li avevano preceduti i Siberia, i Balthazar, gli Editors, I Sum 41. I Cure di Robert Smith e Simon Gallup hanno suonato una trentina di canzoni, percorrendo la loro carriera da Three Imaginary Boys (del 1979!) in poi. Chi si aspettava una scaletta incentrata sul magnificente Disintegration, che quest’anno compie trent’anni, si è dovuto accontentare di quattro dei pezzi dell’album, anche se senz’altro celeberrimi: Lullaby, Pictures of You, Lovesong e Fascination Street. Tra il pubblico, peraltro, c’era anche chi nel giugno del 1989 era poco lontano, a Prato, per seguire il tour che celebrò appunto Disintegration. Di anni ne sono passati per tutti, i Cure sono dei professionisti, Robert Smith è ancora vestito di nero da capo a piedi, usa matita e rossetto come allora, lancia i suoi classici urletti, ma è parso che la band si sia scaldata veramente solo da metà concerto in poi. Alcuni pezzi sono stati lievemente riarrangiati, Smith non è sempre andato sui toni alti, ma va ricordato che ha 60 anni. Però era di buon umore, ha scherzato un po’ col pubblico, ha persino sorriso un paio di volte, si è anche lanciato in qualche accenno di ballo, sempre e comunque alla Robert Smith, quindi senza scomporsi mai troppo. Alla chitarra, invece, è sempre lui e non ha deluso. Il concerto è partito con Shake Dog Shake, seguito da Burn e da From the Edge of the Deep Green Sea. Alla quarta canzone, per la gioia di molti, si è entrati in The Head on the Door, grazie a A Night like this. I cori, però, sono iniziati col brano successivo, Pictures of you. Poi High, Just one Kiss, ed ecco Lovesong, che Smith ha scritto per l’amata moglie Mary, raccontando in un’intervista che però lei avrebbe preferito un gioiello (la sola al mondo, probabilmente). Un po’ di pop alla Cure ha fatto ballare con Just like Heaven per poi tornare nell’oscurità con Last dance, Fascination Street e Never Enough. Prima di attaccare Wendy Time, che non è sempre un must dei loro live, Smith ha detto che quest’anno è invece uno dei pezzi che hanno suonato più spesso. Poi si è passati a Push e alla fantastica Inbetween Days. Un salto nell’album Seventeen Seconds per due pezzi indimenticabili per i fan dei Cure: Play for today e A Forest, con quel basso che risuona fin nello stomaco e quel “again and again and again” infinito, che pure Robert Smith riesce ancora a cantare fino in fondo prendendo fiato solo all’inizio.


 Altre quattro canzoni prima della pausa: Primary, altro pezzone super dark, e poi Want, 39, One Hundred Years. Sono quasi le undici, ci si aspetta che l’encore conti massimo tre pezzi. E invece no. I Cure rientrano, ora sono davvero in formissima e sparano una serie di cartucce formidabili: Lullaby, The Caterpillar, The Walk. Con Doing the Unstuck ci si dice che non possono chiudere con un pezzo come questo. E infatti in sequenza ecco Friday I’m in Love, Close to Me, Why Can’t I be You. Chiusura? Boys don’t Cry naturalmente. E qui il pubblico si sgola per concludere le quasi due ore e mezzo di live.    

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