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Coronavirus, l’appello dei centri antiviolenza alle donne: “Noi ci siamo”

Viaggio virtuale tra i cav della penisola ai tempi del coronavirus: "È fondamentale ricordare alle istituzioni che ci siamo anche noi tra i gruppi che continuano a lavorare"

Pubblicato:16-03-2020 13:35
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 17:09

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ROMA – In tempi di coronavirus cambiano radicalmente stili di vita, abitudini familiari e personali, modalita’ di lavoro. La parola d’ordine e’: distanza. Ma cosa accade quando alla base di una pratica, come quella utilizzata dalle operatrici nei centri antiviolenza, ci sono, invece, la relazione e la vicinanza? 

CASA DONNE REGGIO EMILIA: SOSTITUIRE PRESENZA CON PAROLE 

Silvia Iotti, presidente dell’associazione ‘Nondasola’ che gestisce il centro antiviolenza della rete D.i.Re Casa delle donne di Reggio Emilia a cui sono legate quattro case rifugio. “La nostra difficolta’ principale e’ stata proprio la necessita’ di cambiare approccio, visione e pratiche- racconta all’agenzia Dire- La relazione tra donne e’ per noi la chiave di intervento, la vicinanza, l’affiancamento, non sono una categoria astratta. È una vicinanza anche di corpi, in cui si mettono in gioco il toccarsi, l’abbracciarsi, il piangere. La necessita’ di mettere di mezzo una distanza ci sta facendo davvero faticare molto, perche’ non ci appartiene. Laddove noi lavoravamo con la presenza ora dobbiamo spiegare con le parole”. 

Una rivoluzione copernicana, che sta portando “con uno sforzo” a privilegiare “i colloqui telefonici, cosa che prima non facevamo, perche’ le donne ci chiamavano e prendevano un appuntamento per incontrarci in sede”.


Ora e’ tutto diverso: “abbiamo cercato di ridurre al minimo il contatto con la casa, le donne faticano a raggiungerci e anche noi cerchiamo di dare appuntamenti in la’ nel tempo per proteggerle, le incontriamo solo se ce lo chiedono esplicitamente nella stanza piu’ grande che abbiamo e cerchiamo di non farle venire con i bambini”. In questa situazione i colloqui telefonici “hanno preso un altro colore: quello che prima era un semplice ascolto ora e’ un’attivita’ di sostegno. Le donne continuano a telefonare- fa sapere Iotti- ma ho l’impressione che stiamo facendo meno colloqui e credo che questo dipenda dalle circostanze”. Il numero attivo “tutti i giorni dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 18 e’ lo 0522585643-44, mentre il nostro h24 e’ dedicato a forze dell’ordine e Pronto Soccorso”.

Anche nelle case rifugio la vita di donne e bambini con l’emergenza e’ cambiata. “Abbiamo interrotto tutte le attivita’ collettive, dalle riunione tra le donne delle varie case ai momenti di socialita’, ma prestiamo piu’ attenzione al contatto con ognuna di loro”, racconta la presidente di ‘Nondasola’. Nelle case “normalmente non c’e’ una nostra presenza fissa perche’ partiamo dal presupposto che le donne siano responsabili di se stesse, della propria vita. Sanno che devono uscire il meno possibile e organizzarsi per la spesa. Noi lavoriamo con un volontariato molto significativo ed essenziale. In questo periodo abbiamo chiesto anche alle volontarie di non andare nelle case per evitare affollamento. Le nostre riunioni di equipe ormai sono via Skype e anche la relazione tra noi e’ molto ridimensionata, il che rappresenta un grosso peso”.

Anche a Reggio Emilia, come nel resto d’Italia, scarseggiano i dispositivi di protezione. “Le istituzioni non ci hanno fornito le mascherine perche’ non le avevano nemmeno loro, per fortuna le abbiamo comprate all’inizio dell’emergenza in farmacia- sottolinea Iotti- Nonostante fossero in difficolta’, pero’, ci hanno dedicato attenzione e ci siamo confrontate con la referente in Comune per capire come applicare la normativa. Eravamo in attesa di norme un po’ piu’ chiare che regolamentassero i luoghi dove ci si ferma a dormire come le case rifugio, ma non ci sono disposizioni precise. Noi, per ora, le stiamo trattando come delle convivenze”. Al di la’ del “momento di tragedia che stiamo vivendo, il messaggio a politica e istituzioni e’ sempre lo stesso”, dice Iotti, la quale lancia il suo appello: “Avere uno sguardo sulle donne e sui centri antiviolenza. Abbiamo scelto di continuare ad esserci cautelandoci, ma anche assumendoci un rischio- ragiona- Non ho sentito nessuna delle 13 operatrici che lavorano al centro dire: ‘Non vengo, ho paura’. Per questo credo sia importante far sapere alle donne che continuano ad esserci dei luoghi dove poter chiedere aiuto, un aiuto che si costruisce insieme, tenendo necessariamente conto di questa contingenza. La molla che ci muove- conclude- e’ il tentativo di ovviare alla distanza esprimendo vicinanza alle donne”.

CAV EMMA TORINO: CI SIAMO, MA SERVONO MASCHERINE

Le donne che ci contattano per la prima volta sono calate, non ci chiama quasi nessuna. Questo ci preoccupa molto. A loro vorrei dire che non sono sole: noi ci siamo, le capiamo e siamo disponibili ad ascoltarle”. A parlare all’agenzia di stampa Dire e’ Anna Maria Zucca, presidente dei centri antiviolenza E.m.m.a. di Torino e Pinerolo, nati dalla fusione delle associazioni ‘SvoltaDonna’, attiva da 12 anni, e ‘DonneFuturo’, presente sul territorio piemontese da oltre 20, nella rete D.i.Re-Donne in Rete contro la Violenza.

Unite da circa due anni nella gestione di tre case rifugio (complessivi 27 posti per donne e minori), quattro case per l’emergenza e tre per l’autonomia, sei sportelli Asl, uno sportello al campus Einaudi dell’universita’ di Torino e uno all’Ikea – per un totale di circa 400 contatti l’anno – le operatrici torinesi non si sono fermate di fronte all’emergenza coronavirus: “Quando c’e’ stata la chiusura totale abbiamo dovuto rivedere tutto– spiega la presidente di E.m.m.a.- In una riunione ogni operatrice (in tutto le dipendenti sono 13, ndr) ha fatto il punto sulle donne che segue e, per fortuna, la maggior parte erano in un momento in cui le si poteva telefonare. Ci siamo organizzate per essere disponibili via Skype o via telefono (numero verde: 800 093.900; cav ‘SvoltaDonna’ 0121062380; cav ‘DonneFuturo’ 0115187438, ndr), ma se le donne vogliono venire possono farlo, con le dovute cautele. Le operatrici sono nei cav a turno- chiarisce- Sono in tre a Torino, una volta a settimana, e la domenica si alternano. Con le altre abbiamo condiviso insieme per questioni di sicurezza di farle stare in ferie ed essere reperibili per le emergenze. A Pinerolo le operatrici sono presenti due volte a settimana nel centro, gli altri tre giorni sono coperti da collaboratrici che gestiscono l’emergenza h24. In questo modo si garantisce il numero verde e una presenza costante nei due centri antiviolenza”.

Anche “nelle case rifugio il personale continua ad essere presente- puntualizza Zucca- e questa emergenza ha creato spirito di solidarieta’ e molta collaborazione. Qualunque tipo di malessere e’ stato messo da parte e tutte si sono impegnate a pulire benissimo la casa”. Non solo. Le operatrici di E.m.m.a. hanno deciso di mantenere attivo anche il servizio di banco alimentare e farmaceutico, offerto a tutte le donne prese in carico che vivono situazioni di difficolta’ economica. “Ci siamo attrezzate con guanti e carrello, limitando i contatti e facendole venire una per volta- racconta Zucca- Anche i punti di raccolta delle denunce continuano a funzionare. Il Codice Rosso resta valido e dagli ospedali abbiamo avuto i nominativi dei referenti specializzati su violenza sessuale e maltrattamenti, che gia’ conosciamo”.

La rete territoriale antiviolenza e’ in funzione, ma il problema, anche in cav e case rifugio, e’ la mancanza di mascherine: “Siamo terrorizzate perche’ pensiamo al momento in cui ci sara’ un’emergenza- sottolinea Zucca- Nel momento in cui questa situazione si stabilizzera’ le donne che si trovano con un compagno o marito maltrattante vivranno una situazione di estremo pericolo e ci aspettiamo che prima o poi le richieste ci saranno. I periodi in cui le donne chiedono aiuto di piu’ sono le vacanze estive, le feste di Natale“. Momenti in cui la convivenza si fa piu’ serrata. 

“Questo stress continuo a un certo punto viene fuori”. Per questo, conclude, “e’ fondamentale ricordare alle istituzioni che ci siamo anche noi tra i gruppi che continuano a lavorare e che hanno bisogno di mascherine“. 

PALLADINO (COOP EVA): CAV PRESIDIO ESSENZIALE

In questo momento le nostre case rifugio sono piene, abbiamo 16 donne e 11 bambini. Queste donne hanno paura del contagio, ma al contempo hanno le solite emergenze dettate dal loro percorso di uscita dalla violenza. Noi stiamo lavorando ugualmente, assicurando la nostra reperibilita’ 24 ore su 24 e stiamo cercando dalla scorsa settimana di conciliare l’accoglienza, l’ascolto, l’aiuto, il sostegno, l’accompagnamento delle donne, con il rispetto dei Dpcm per l’emergenza sanitaria”. Anche in Campania e’ incessante la riorganizzazione per garantire la presenza attiva sul territorio di centri antiviolenza e case rifugio per donne e minori, come racconta in un video inviato all’agenzia Dire Raffaella Palladino, gia’ presidente di D.i.Re-Donne in Rete contro la Violenza e sociologa attivista della Cooperativa E.V.A. che gestisce cinque cav e tre case rifugio (numeri utili attivi sul territorio: Caserta, 0818921806 e 0823204145; Benevento, 08241623142 e 3287870406). E, anche in Campania, queste strutture non sono state fornite di dispositivi di protezione: “Non abbiamo avuto immediate risposte da parte delle istituzioni locali ne’ presidi utili alla conciliazione della nostra duplice esigenza– chiarisce Palladino- Abbiamo quelli che ci siamo procurate da sole: guanti, amuchina, ma null’altro. Mentre, va detto, abbiamo avuto un’immediata e accogliente risposta da parte della ministra Bonetti, che si e’ aperta al confronto e dal video del 1522 in poi ha dimostrato di avere chiare le esigenze delle donne di questo Paese”.

CAV COSENZA: SERVE PIATTAFORMA LEGATA A 1522

Una piattaforma unica nazionale legata al 1522 per garantire un livello di ascolto e assistenza di base per le donne che subiscono violenza da parte delle operatrici dei centri sul territorio e una dotazione materiale di mascherine e guanti per continuare a mantenere attive in modo contingentato le sedi dei centri antiviolenza. Secondo Marta Picardi, operatrice di accoglienza del centro antiviolenza ‘Roberta Lanzino’ di Cosenza inserito nella rete nazionale D.i.Re, sono questi i due strumenti necessari per non lasciare indietro le donne che subiscono violenza in questa fase di emergenza coronavirus. “Mentre iniziava l’emergenza, qui a Cosenza c’e’ stata una forte scossa di terremoto che ha leggermente lesionato la nostra sede- racconta all’agenzia Dire Picardi- Abbiamo chiuso aspettando i vigili che venissero a visionare l’edificio, poi siamo rimaste in sospeso. Dopo il primo decreto del Governo per il contenimento del virus abbiamo deciso di chiudere al pubblico, ma restare in sede a rispondere al telefono. Con l’ultimo abbiamo deciso che le operatrici non sarebbero piu’ andate in sede e ci siamo lasciate la reperibilita’ telefonica con la linea di emergenza h24 che risponde al numero: 3298981723. Garantiamo accoglienza telefonica e ascolto, mentre i colloqui sono rimandati almeno fino al 3 aprile. Le donne che hanno iniziato un percorso stabile al centro, invece, le stiamo sentendo anche con videochiamate”. 

Anche al cav ‘R. Lanzino’ di Cosenza, dove nel 2019 sono state accolte 110 donne, “le chiamate sono calate dall’inizio dell’emergenza e la preoccupazione e’ che si creino situazioni abnormi, perche’ in questo momento molte donne pensano che e’ meglio sopportare e non far esplodere partner violenti. Abbiamo il timore che ci sia un incremento di femminicidi e violenze domestiche che non verranno denunciate”. Tra gli aspetti presi in esame dal decreto, poi, “c’e’ la separazione, con una clausola che garantisce il rispetto delle sentenze. È molto generica e nei casi particolari che seguiamo noi, si creano delle complicazioni. Molte dopo la separazione tornano a casa con la mamma anziana e se il bambino viene preso dal padre che magari lavora in un supermercato potrebbe essere piu’ esposto, tornare a casa e contagiare la nonna, che e’ l’unico aiuto della donna. Ma con l’uomo violento non c’e’ buon senso e mediazione e su questo ambito non c’e’ mai la giusta attenzione, quindi il coronavirus puo’ diventare uno dei tanti terreni con cui questi uomini continuano ad esercitare violenza”.
Dalle istituzioni “non abbiamo avuto indicazioni e linee guida, ne’ dispositivi di sicurezza, ci aspettavamo almeno una comunicazione dalla Regione che ci finanzia”. “Andra’ tutto bene”, e’ la frase che, in linea con il messaggio di ottimismo lanciato in tutta Italia con striscioni e post-it, Marta Picardi intende lanciare alle donne: “Devono sapere che possono anche in questo momento mettersi in salvo se hanno bisogno di farlo perche’ ci siamo noi. E anche se i servizi non sono di persona, sono organizzati per esserci, sia per chi vuole scappare sia per chi vuole parlare. La violenza si combatte sempre, i nostri presidi non possono smettere di esistere“. Per questo, secondo l’operatrice, sarebbe utile una “piattaforma unica nazionale in grado di garantire un livello minimo a tutte le donne, data la grande disomogeneita’ territoriale; pensare di fornire alle operatrici una dotazione minima per continuare a ricevere la chiamate e incontrare le donne, soprattutto quelle che hanno bisogno di consulenza legale o psicologica, difficile da portare avanti al telefono”. L’#iorestoacasa potrebbe essere vissuto da molte come un “#comerestoacasa, perche’ se fuori non e’ sicuro e dentro non lo e’, questo ha un grosso impatto psicologico su donne traumatizzate. Per questo- conclude Picardi- bisognerebbe accelerare i provvedimenti cautelari, gli allontanamenti, e fare in modo che se una donna e’ in pericolo stia a casa e sia l’uomo a doversi allontanare“.

CAV PADOVA: DA COMUNE E REGIONE NESSUN CONTATTO

Nessuna indicazione su quali procedure sanitarie adottare, poca sensibilizzazione sui messaggi da lanciare alle donne, zero contatti telefonici: “Ne’ la Regione Veneto ne’ il Comune di Padova ci hanno chiamate per chiederci come ci siamo organizzate”. Mariangela Zanni, responsabile della comunicazione del Centro Veneto Progetti Donna-Auser racconta all’agenzia Dire il duro percorso intrapreso senza il sostegno delle istituzioni dai quattro centri antiviolenza e dalle cinque case rifugio per donne e minori (12 posti letto) gestite dall’associazione della rete D.i.Re – attiva da 30 anni nella provincia di Padova – da quando, quel 23 febbraio, nel capoluogo veneto tutto si e’ fermato a causa del primo decesso da coronavirus accertato sul territorio. “Abbiamo deciso di chiudere tutti i centri periferici e di tenere aperto solo quello di Padova citta’”, spiega Zanni, riportando i numeri delle donne accolte nel 2019: 1.089, delle quali il 75-80% prese in carico e 36 ospitate nelle case rifugio con 46 bambini.
Andiamo in sede una sola volta al giorno per ascoltare la segreteria telefonica– aggiunge- Poi lavoriamo da casa con un sistema di deviazione di chiamata sui dispositivi delle operatrici dal numero verde attivo 12 ore al giorno dal lunedi’ al venerdi’ dalle 8 alle 20. (800 814681). Continuiamo da casa anche il nostro lavoro di back office e di contatto con i servizi, soprattutto sui casi che devono andare avanti perche’ ci sono problematiche di salute che vanno salvaguardate”. Nelle case rifugio “abbiamo avuto una presenza normale fino al 9 marzo, facendo anche baby sitting nella sede dell’associazione- aggiunge- Da lunedi’ scorso, pero’, anche nelle case abbiamo diminuito i contatti, che avvengono solo con le mascherine, trovate non grazie alle istituzioni ma con l’aiuto di un’impresa di pulizie e di una farmacia. Abbiamo anche cominciato con la sanificazione degli alloggi e alle donne ospiti delle case abbiamo fornito schede prepagate e contanti per gestire in autonomia piccole spese e abbiamo fatto ricariche telefoniche. Portiamo la spesa grossa una volta alla settimana mantenendo la distanza e con le mascherine, e abbiamo con loro un contatto telefonico”. 

Paradossalmente, le donne in casa rifugio “hanno piu’ strumenti per affrontare questo isolamento– osserva Zanni- perche’ ci sono abituate. Per la maggior parte stanno reagendo bene, anche se hanno tutto il peso dei bambini a casa e non e’ facile”.
Per le “accoglienze in emergenza, invece- fa sapere la responsabile comunicazione dell’associazione- c’e’ una struttura aperta solo per noi perche’ c’era gia’ una donna ospite”. Ma il vero problema sono le nuove accoglienze in emergenza, perche’ non si puo’ correre il rischio di far entrare un potenziale nuovo contagio nelle case rifugio. “L’1 marzo ci ha contattato una donna che arrivava dal Pronto Soccorso- racconta- Ci siamo chieste cosa fare perche’ era entrata in contatto con un luogo dove potenzialmente poteva essere stata contagiata. Nessuno ci ha dato indicazioni, abbiamo preso noi le decisioni facendo prevalere la sicurezza e il diritto della donna ad essere protetta dalla violenza. Prima e’ stata ospitata in un albergo, poi in una struttura privata. La nostra presenza in questo caso e’ piu’ forte”. Preoccupa “il drastico calo delle chiamate”, osserva Zanni: “Di solito ne riceviamo tre al giorno nuove, ma in queste ultime due settimane ne abbiamo ricevuto in tutto tre. Ci stiamo chiedendo quali mezzi le donne possano utilizzare per contattarci lo stesso, perche’ stando col maltrattante chiamare puo’ essere motivo di pericolo”. Di qui l’appello: “Ci rivolgiamo a tutte le persone che in questo momento sono in casa affinche’ non chiudano gli occhi e le orecchie rispetto a eventuali situazioni di violenza con cui vengano in contatto”.
Alle istituzioni, invece, “chiediamo di fare propri e diffondere gli appelli dei centri antiviolenza, inserire i numeri dei centri nella comunicazione ufficiale e prevedere per le accoglienze in emergenza delle soluzioni adeguate che, al momento, non possono essere le case rifugio”.

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