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Dalla nostra inviata Silvia Mari
BEIRUT – L’odore acre del grano fermentato, misto ai rifiuti in quel che resta nel moncone dei silos, è nauseante. Le lamiere sono montagne intervallate da rifiuti e carcasse di nave. Gli uccelli sorvolano l’acqua entrata nel cratere che ha spezzato in due il molo. Non è mare, ma una lamiera lugubre. Il silenzio è solido, asfissiante. Appare cosi il porto di Beirut, distrutto dall’esplosione del 4 agosto 2020, ai pochi che possono, dopo lunghe e complesse autorizzazioni, varcare la soglia d’ingresso. L’ agenzia Dire, alla vigilia del voto, ha potuto documentare le condizioni della zona distrutta di Beirut.
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L’ultima persona è morta una settimana fa: 243 il bilancio di un’apocalisse da 2.750 tonnellate di nitrato d’ammonio. Attraversando l’area resta ancora oggi addosso una forte tosse nelle ore successive, e tutto è fermo a quel giorno.
Con il cuore del Libano così ridotto e la giustizia di fatto bloccata è davvero difficile avere reali aspettative nel voto del 15 maggio. ‘Inshallah‘ (se Dio vuole) dicono tutti, ma nessuno sa mai se sia rassegnazione o vera speranza.
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