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La storia di Francesca, malata e studiosa di protoporfiria: “La luce mi brucia dentro”

Nel mese delle malattie rare nasce l'associazione 'Vivi Porfiria, la patologia in Italia conta 208 persone

Pubblicato:11-02-2023 15:57
Ultimo aggiornamento:13-02-2023 17:14

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ROMA – “Se ti esponi alla luce blu, il male arriva“. In queste poche parole è racchiusa la vita di Francesca Granata, una giovane ricercatrice sanitaria del Policlinico di Milano affetta dalla Protoporfiria Eritropoietica (EPP), una malattia ereditaria del metabolismo dell’eme causata da un problema del midollo osseo e caratterizzata dall’accumulo di protoporfirina-IX nel sangue, negli eritrociti e nel fegato. “Nel sangue scorre una molecola che si chiama Eme ed è essenziale per la vita, perché trasporta l’ossigeno in tutti i tessuti. L’Eme- spiega Granata alla Dire- è assemblato da una catena di produzione di enzimi, ma nei pazienti affetti da EPP questa catena si inceppa a causa di difetti genetici rari che colpiscono gli enzimi stessi. Si forma così la protoporfirina-IX, una molecola fotoreattiva che si accumula nel sangue, nel fegato e nella pelle dei pazienti: bastano 5 minuti di esposizione alla luce blu per avvertire i primi sintomi di malessere. Non è una malattia On-Off- rimarca la studiosa- è una patologia da accumulo di energia solare. Io paragono la protoporfirina-IX alla dinamo che carica energia e poi la riutilizza, ma in modo tossico perché nel paziente con Protoporfiria eritropoietica la luce rossa che si genera dalla reazione ha solo la capacità di bruciare la pelle dal di dentro”.


Per arrivare alla diagnosi di Protoporfiria eritropoietica possono trascorrere anche 20 anni. “Dal 2009 lavoro nel laboratorio che cura le porfirie, di cui esistono 8 forme, e mi occupo di diagnostica e ricerca. Diagnostico pazienti con Protoporfiria dai 20 ai 40 anni- sottolinea Granata- persone che soffrono da una vita. Una paziente mi ha raccontato addirittura di essersi diagnosticata la malattia tramite un programma tv sulle patologie misteriose, mentre un’altra ha riconosciuto i suoi sintomi perché è incappata nel mio ted talk”. Per uscire dall’ombra fisica e di conoscenze che avvolge questa condizione, Francesca Granata ha deciso di studiare la sua malattia e di intraprendere una nuova avventura: oggi firmerà, assieme ad altre cinque pazienti, lo statuto dell’associazione ‘Vivi Porfiria’ per tutelare i malati. “Vogliamo divulgare e aumentare le conoscenze su queste malattie a fronte di nuove terapie come quelle che utilizzano l’RNA interference, per la Porfiria epatica acuta”.


L’obiettivo della nuova associazione è, quindi, stimolare la ricerca per arrivare prima alla diagnosi e alle terapie. “Da bambina mi ritrovavo nel letto con le mani gonfie e i capillari del volto spaccati. Provavo un dolore che mi impediva di dormire, mangiare, respirare o muovermi. Restavo ferma, perché anche il contatto con le lenzuola mi toglieva il fiato. Non potevo trovare conforto nemmeno tra le braccia di mia madre, il calore del suo corpo mi provocava malessere. Quando l’attacco arrivava, la reazione era violentissima. Da piccola facevo i conti con il dolore, perché i bambini non vedono il limite, sentono solo un male che non riescono a spiegare”. A lei la diagnosi è arrivata tardi, a 22 anni, fino ad allora si credeva fosse un problema di carattere psicosomatico: “Si era capito che da bambina avevo un problema con l’esposizione all’aria aperta, ma questo dolore non aveva né un nome né un cognome. Per capire di cosa soffrivo ho deciso di studiare Biologia a Milano e, dopo un periodo di pendolarismo tra Brescia e Milano con orari dei treni insostenibili, mi sono trasferita in questa città dai prezzi inaccessibili”. Durante gli studi il suo professore di Biochimica parlò delle Porfirie e da lì il collegamento con la malattia fu facile: “Nel 2009 arrivò la diagnosi, uno spartiacque nella mia vita, finalmente avevo un certificato. Poi nel 2010 venni a conoscenza di una cura che preveniva la reazione fototossica. Il suo principio attivo è l’afamelanotide e consiste in un impianto, una pastiglietta, che viene inserito tramite una cannula al livello del fianco. Si riassorbe nel grasso e garantisce una copertura che varia dai 40 ai 60 giorni, ma non bisogna mai abbassare la guardia- raccomanda- la terapia evita il dolore, ma non cura la malattia“. In Lombardia sono disponibili quattro impianti che coprono sei mesi. “Non bastano- chiosa la ricercatrice- Il trial clinico è stato studiato su sei impianti per coprire un intero anno solare, inoltre più ne fai e più il farmaco diventa efficace”.


La ricercatrice non si arrende: “Dal 2018 sono attiva in un’associazione internazionale formata da scienziati e pazienti affetti da Protoporfiria. Ci battiamo a livello europeo per la tutela del farmaco. I pazienti affetti da questa malattia rara sono pochi, in Italia si contano 208 persone ma a prendere il farmaco sono solo in 150″. La cura è l’unica arma che queste persone hanno per poter condurre una vita normale. “Spesso i sintomi sono invisibili agli altri, ma la sofferenza è atroce- racconta la donna- si parte dal bruciore, poi arriva il formicolio, il gonfiore, gli ematomi rossi sulla pelle e i tagli. E il bruciore cutaneo è paragonabile a una scottatura da forno o da ferro da stiro bollenti, è intenso e può manifestarsi su tutte le parti fotoesposte del corpo: il volto, le mani e i punti che non possono essere coperti da abiti o gadget. Il livello di sofferenza varia in base alla quantità di luce blu che una persona con Protoporfiria assorbe. Può capitare che un paziente resti anche una settimana chiuso in casa, al buio, senza muoversi per paura che la pelle sfiori qualcosa. In età adulta ho imparato a non espormi per più di mezz’ora alla luce blu perché altrimenti le conseguenze sul mio corpo sarebbero devastanti”.

Il paziente con una malattia rara impara presto a non superare il proprio limite di dolore, cerca sempre un’alternativa. “Per me quest’alternativa è resistere al sole coprendomi con guanti, vestiti lunghi e cappelli. Da adolescente avevo vergogna ad usare questi ‘kit del sole’, sono un po’ fuori epoca, ma il mio più grande limite non è non andare al mare o in vacanza, è il non poter passeggiare se non saltando da un’ombra all’altra”. E le ombre non sono tutte uguali: “Quella prodotta dalle nuvole o dagli alberi non va bene, filtra la luce e il male sopraggiunge. L’ombra buona è data da spesse pareti di legno o di muro”.
Nel 2024 Francesca Granata parteciperà al congresso mondiale sulle Protoporfirie a ‘Pamplona, lì presenterà le sue ricerche. Ma la Protoporfiria è una delle 8.000 malattie rare note nel mondo. “Si tratta di un numero costantemente in crescita e un medico non può conoscerle tutte- conclude- per questo bisogna rafforzare il networking e non minimizzare mai la sintomatologia dei pazienti. Tante malattie hanno sintomi invisibili: l’endometriosi, la fibromialgia, patologie che solo ultimamente iniziano ad essere credute senza farle ricadere nella psicosomatica. Il messaggio che lancio in questo mese delle malattie rare è la necessità di tutelare e aiutare la ricerca. Se non aumentiamo la fiducia nei ricercatori il nostro paese è destinato a rimanere indietro. In Italia ci sono migliaia di ricercatori con la passione per il proprio lavoro, ma senza una prospettiva sicura per il proprio futuro lavorativo “.

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