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Sanità, la costituzionalista di Unimi scettica sulla riforma del Titolo V

Francesca Biondi, docente di Diritto Costituzionale alla Statale di Milano: "La sensazione è che le Regioni non abbiano voluto esercitare l'autonomia che hanno richiesto per anni" | Di Michele Mastandrea

Pubblicato:10-11-2020 14:19
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 20:12
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MILANO – Negli ultimi giorni si e’ tornato a parlare di riforma del titolo V, ovvero di quella parte della Costituzione che regola i rapporti tra Stato e Regioni. Rapporti sempre piu’ tesi negli ultimi mesi, e che si sono complicati a partire dall’attuale crisi sanitaria, con la contrapposizione scoppiata sulle reciproche responsabilita’ nella gestione della pandemia.

Molti esponenti politici in questi giorni si sono detti a favore di una revisione del titolo V in chiave centralista. Una proposta di legge e’ attualmente in commissione Affari Costituzionali, con il governo che sembra intenzionato ad andare avanti nel progetto di riforma. Abbiamo raggiunto Francesca Biondi, docente di Diritto Costituzionale alla Statale di Milano, per affrontare l’argomento.

“La riforma del titolo V del 2001 nasce in un contesto politico generale dove si riteneva opportuno dare autonomia alle Regioni”, spiega Biondi. Al di la’ delle divisioni partitiche, per la costituzionalista c’era consenso nel mondo politico sulla costruzione dell’attuale assetto, che vede le Regioni titolari del fondamentale ambito della tutela della salute.


Ma quali sono oggi i nodi del contendere? “Quello che si lamenta oggi e’ la mancanza di una clausola di supremazia, ovvero della possibilita’ per lo Stato di accentrare alcune competenze. Io non condivido pero’ questa lettura. Lo Stato ha poteri sostitutivi che esercita molto poco, principalmente per ragioni politiche. Insomma, si puo’ derogare in tema di competenze anche senza clausola di supremazia”.

Per molti, il caos causato da venti sistemi sanitari diversi su base regionale e dai loro rapporti politici con il governo centrale ha reso ancora piu’ difficile affrontare la pandemia. Da questa situazione potrebbe esserci un freno al processo di autonomia regionale? “Se il regionalismo e’ fallito per ragioni politiche, anche il governo non ha esercitato azioni piu’ incisive in senso centralista, probabilmente perche’ non si vuole alimentare la contrapposizione”, argomenta Biondi.

“Eppure”, prosegue la Costituzionalista della Statale, “la sensazione ora e’ che le Regioni non abbiano voluto esercitare l’autonomia che hanno richiesto per anni. La Lombardia ad esempio ha chiesto in passato differenziazioni allo Stato, per avere maggior autonomia e risorse. Ora che potrebbe invece esercitare la sua autonomia in campo sanitario, come fatto ad esempio dall’Alto Adige, chiede di fatto l’intervento allo Stato. Se vuoi autonomia, dovresti poi prenderti le responsabilita’ che ne derivano“.

Molte Regioni come noto hanno lamentato decisioni autoritarie in relazione all’ultimo Dpcm. La Lombardia con il suo presidente Fontana ha parlato di “schiaffo in faccia” in relazione all’istituzione della zona rossa sul territorio regionale. Per Biondi pero’ il comportamento delle Regioni e’ stato quantomeno ondivago. “Nella prima fase della pandemia le Regioni hanno lamentato di esser state poco sentite. Eppure non hanno impugnato alcun provvedimento, non hanno parlato di violazione di competenze come fu fatto nei confronti dei decreti Salvini ad esempio”.

Ora, argomenta Biondi, “il governo ha deciso di coinvolgerle di piu’, anche differenziando in base ai noti 21 parametri da regione a regione, eppure neanche questo va bene. L’impressione e’ che le ragioni del confronto siano politiche“.

Detto questo, “questa vicenda favorisce coloro che non credono nelle autonomie regionali. Se si vuole tornare indietro sul percorso iniziato vent’anni fa, questa e’ l’occasione per farlo“, conclude Biondi.

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