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VIDEO | Violenza donne, le attiviste africane a Bonetti: ” ‘Libera puoi’ in altre lingue”

'Libera Puoi' è la campagna social che promuove il 1522 ed e' rivolta alle donne che vivono situazioni di violenza durante l'emergenza Covid-19

Pubblicato:21-04-2020 07:46
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 18:10

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https://youtu.be/CA3ZXJqRbto

ROMA – È indirizzata alla ministra per le Pari Opportunita’ e la Famiglia, Elena Bonetti, la lettera aperta lanciata su Change.org con una petizione online da Invisibili-Collettivo Afrofemministe che, assieme alle associazioni ‘CReA‘, ‘Donne Africa Subsahariana e II generazione‘, ‘Cambio Passo‘ e ‘Sans Frontiere’, chiedono di arricchire con “piu’ inclusione e diversita’ culturale”, a partire dalla lingua, ‘Libera Puoi‘, la campagna social che promuove il 1522 ed e’ rivolta alle donne che vivono situazioni di violenza durante l’emergenza Covid-19. 

La preoccupazione principale di Bridget Ohabuche, fondatrice e coordinatrice del collettivo afrofemminista, nato nell’agosto 2019, “e’ che il messaggio non arrivi a tutte le donne per motivi di barriera linguistica. Noi chiediamo- spiega all’agenzia Dire- che ci sia piu’ inclusione e diversita’ culturale e che la campagna sia in diverse lingue, cosi’ la comunicazione potra’ arrivere a tutte le donne“. Indispensabili, per l’attivista nigeriana che vive da 12 anni in Italia, sono “l’inglese, il francese, l’arabo e lo spagnolo”, lingue comprese da molte delle donne migranti che vivono nel nostro Paese e che, come le italiane, possono trovarsi a convivere forzatamente h24 con un uomo violento. L’obiettivo e’ di arrivare ad una platea il piu’ ampia possibile, grazie all’intervento delle istituzioni. Ma nel frattempo le attiviste si sono attrezzate coi propri mezzi, dal basso: “Il 29 marzo il nostro collettivo ha realizzato un breve video in lingua inglese e francese in diretta Facebook per informare le donne africane dell’esistenza della rete antiviolenza e di contattare il 1522 in caso di violenza domestica in questo periodo di emergenza”, si legge nel testo della petizione. 


E, rivolgendosi alla ministra, continua: “Non abbiamo tutti gli strumenti al livello nazionale per fare arrivare a tutte le donne migrate questo messaggio in diverse lingue, ma il suo ufficio puo’ farlo cosi’ nessuna donna si sentira’ sola“. E non far sentire sole le donne migranti, in particolare di discendenza africana, e’ la missione che Bridget, 31 anni, studentessa di Giurisprudenza all’universita’ Roma Tre, gia’ laureata in Relazioni internazionali, cerca di portare avanti con fatica da agosto, assieme ad oltre dieci attiviste provenienti da Congo, Nigeria, Camerun, Somalia, Senegal, Madagascar e Sierra Leone e residenti in varie regioni d’Italia, tutte a vario modo attive nel sociale. Da Rahel Sereke, presidente dell’associazione ‘Cambio Passo’ di Milano, a Suad Omar, consigliera dell’ottava circoscrizione a Torino e vicepresidente dell’associazione Donne Africa subsahariana e II Generazione; da Yvette Samnick, mediatrice interculturale in un centro antiviolenza di Cosenza, a Madjiguene Sarr, interprete presso la Commissione territoriale per la protezione internazionale di Roma. E poi ancora: Isata Sall, anche lei interprete di Commissione territoriale per la protezione internazionale; Lukusa Thsiele, fondatrice e presidente dell’associazione ‘Sans frontiere’ a Viterbo; Soalandy Barbier, studentessa di Scienze politiche presso l’universita’ di John Cabot, Roma; Sandrine Tamgoua, assistente sociale a Milano; Delisia Essono, mediatrice nelle ambasciate africane; e Carmen, l’unica sudamericana, che lavora in un centro di ascolto di Roma. “Siamo un collettivo che lotta per i diritti delle donne in generale, ma anche contro le discriminazioni rivolte alle donne nere- spiega ancora Bridget alla Dire- Cerchiamo di creare uno spazio dedicato soprattutto alle africane e afro-italiane, cosi’ possiamo affrontare alcune questioni che le riguardano, come il sessismo, il classismo, il colonialismo, il patriarcato, il razzismo e il capitalismo. Abbiamo visto che in alcuni collettivi e associazioni femministe di donne italiane- osserva- i nostri problemi non hanno risposta concreta, quindi per noi era molto importante creare uno spazio per stare insieme e discutere di cose che riguardano la nostra cultura, per dare delle risposte concrete alle problematiche delle donne che ci chiedono aiuto”. 

Da agosto, infatti, sono circa 40 le donne migranti separate dai propri bambini che si sono rivolte al collettivo per ottenere un sostegno legale, quattro le vittime di tratta, tre quelle che hanno subito violenza, di cui due hanno chiesto aiuto proprio in emergenza coronavirus, “una a Milano e una a Roma. Per quella di Milano- racconta Bridget- ho chiamato io il 1522 e l’ho messa in contatto con un centro antiviolenza, ho anche fatto da mediatrice in videoconferenza con lei e l’operatrice. Questa donna subiva violenza psicologica. Quando ha saputo che, per via di suo figlio neonato, si dovevano coinvolgere gli assistenti sociali si e’ ritirata, perche’ oltretutto aveva il documento scaduto”. Stessa paura, quella per i figli, della “donna che mi ha contattato da Roma, a cui ho potuto lasciare solo il numero del centro antiviolenza e il 1522”. Un timore non del tutto infondato. Il collettivo, infatti, sta attualmente assistendo moltissime donne a cui sono stati sottratti i figli “soprattutto per motivi economici. Noi le aiutiamo a trovare le avvocate che si interessino alla loro situazione sinceramente”, continua l’attivista, il cui impegno per i diritti delle migranti e’ iniziato quando nel 2018 conosce A.. A. e’ una donna africana con protezione umanitaria che non riesce ad ottenere un sostegno per lei e per il proprio bambino dal Comune di Rovigo perche’ le manca la residenza. A. finisce in una relazione violenta con un uomo nigeriano, che “le aveva assicurato che l’avrebbe sposata”, racconta Bridget. Ottiene la residenza, ma suo figlio racconta alle maestre cosa succedeva in casa. Intervengono gli assistenti sociali che inseriscono A. e il bambino in una casa famiglia. “Poi pero’ il piccolo viene portato via perche’ l’assistente sociale ha sostenuto che la mamma si era rifiutata di denunciare la violenza”. Il piccolo D. finisce in una casa famiglia in Veneto, mentre Bridget decide di segnalare il caso all’Autorita’ Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza. “L’avvocata aveva proposto di far adottare il bambino a uno dei parenti della famiglia di A., ipotesi che viene rifiutata dall’assistente sociale”. Nel frattempo A. non si fida piu’ di nessuno, nemmeno delle operatrici del centro antiviolenza con cui Bridget l’ha messa in contatto. La storia di A. e’ emblematica delle difficolta’ che le donne migranti vivono, tra permessi di soggiorno sempre piu’ difficili da ottenere, posti di lavoro introvabili, occupazioni in nero, problemi linguistici, storie di violenza domestica e tratta. “Il nostro- conclude Bridget- non e’ solo un lavoro di mediazione culturale. Proviamo a raccogliere tutte le informazioni che riguardano queste donne qui in Italia per trovare risposte concrete ai loro problemi. Non ci sono strumenti adeguati a risolvere queste situazioni, anche nei centri antiviolenza. Ora hanno cominciato ad inserire le mediatrici, ma bisogna formare operatrici straniere fisse, non chiamarle solo quando ci sono casi specifici. Devono essere partecipi, e’ una questione di inclusione“. 

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