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Pedde (Institute for Global Studies ): “Ascoltiamo i giovani, dalla Tunisia all’Iraq”

È l'appello lanciato all'agenzia Dire dal direttore dell'Igs a margine di un evento del Festival della Diplomazia sullo stato delle Primavere arabe dieci anni dopo

Pubblicato:18-10-2021 18:24
Ultimo aggiornamento:18-10-2021 18:48

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ROMA – “In Tunisia il presidente Kais Saied ha realizzato un vero e proprio colpo di stato e la nomina della prima premier donna del Paese – seppur in gamba e competente – sembra più un modo per soddisfare i canoni dell’Occidente che non una reale volontà di cambiamento. Il cammino democratico e il sistema del pluralismo dei partiti hanno fallito, con il potere che resta saldamente in mano al presidente. Grave che le richieste di cambiamento delle nuove generazioni restino inascoltate, qui come altrove”. Questa l’analisi che fornisce Nicola Pedde, direttore dell’Institute for Global Studies (Isg), in un’intervista con l’agenzia Dire a margine di un evento del Festival della Diplomazia sullo stato delle Primavere arabe dieci anni dopo.

Rivolte cominciate nel 2011 in cui la Tunisia “fu tra i Paesi da cui partì il disagio contro gli autoritarismi”, ricorda Pedde, convinto che poi in ogni Paese arabo “le cose si siano espresse ed evolute in modo specifico”. Quel malcontento non si è però mai del tutto esaurito. Contro questi focolai di instabilità nel bacino del Mediterraneo fino all’Iraq si schierano “le migliaia di giovani che si aggregano in piazza in modo spontaneo e apartitico per chiedere cambiamenti profondi nella classe politico-istituzionale e dirigente, che non è in grado – o non ha interesse – a collaborare”. Se in Tunisia ci si batte contro il graduale ritorno all’autoritarismo, in Libano si temono gli scontri armati, in un Paese dove i tre quarti della popolazione vive in povertà e la carenza di carburante è così grave da aver lasciato Beirut a lungo al buio.

Secondo Pedde, le immagini degli scontri a fuoco dei giorni scorsi tra gli sciiti di Hezbollah e Amal da una parte e militanti delle Forze libanesi dall’altra nel quartiere cristiano-maronita della capitale “fanno temere il ritorno alla guerra civile che negli anni Settanta scoppiò esattamente così” per l’opposizione tra gruppi politico-religiosi. Anche qui, ricorda il direttore dell’Igs, dal 2019 si è rafforzato un movimento giovanile che chiede la fine di un sistema istituzionale che dà potere e legittimità a questi gruppi, che altro non sono che “i protagonisti della guerra civile”.


Ricorda Pedde: “Hezbollah arrivò dopo, grazie al sostegno dell’Iran, ma come gli altri partiti non intende rinunciare al potere economico e politico ottenuto”. Nel 2019 l’Algeria ha conosciuto una “primavera” tramite le rivolte pacifiche dell’Hirak, un movimento di giovani “che non si è ancora evoluto in un partito né ha spazio alle urne, ma esiste tutt’oggi”. Una spina nel fianco per i dirigenti politici algerini tanto quanto quelli iracheni che, alle ultime elezioni, hanno dovuto fare i conti con l’astensionismo delle nuove generazioni stanche di non avere “acqua, elettricità, lavoro, ma soprattutto di vedere il governo impegnato in un continuo braccio di ferro con le milizie”. La fame di lavoro ma anche di pace, secondo Pedde, potrebbe essere la ricetta per portare la Libia al voto tra dicembre e gennaio prossimi.

“Gli Stati Uniti premono affinché in Libia emerga una leadership riconoscibile e legittima nonostante i tentativi di sabotaggio dei vari signori della guerra, primi tra tutti il generale Haftar” osserva il direttore dell’Istitute for Global Studies. “Ma neanche le milizie possono sperare di sopravvivere se perdono il sostegno della popolazione, che dopo dieci anni di violenze vuole che ripartano sviluppo economico e sociale per l’intera nazione, a patire dalla redistribuzione dei proventi del petrolio”.

In questo quadro, in Nord Africa e Medioriente ancora pesano sacche irredentiste: quelle nel Sahara occidentale, dove il Fronte Polisario si batte contro il Marocco per l’indipendenza del popolo saharawi, e dall’altra parte del Mediterraneo la questione israelo-palestinese. “Il Marocco- dice l’analista- è riuscito, grazie all’ex presidente americano Donald Trump, a vedere riconosciuta la propria sovranità su parte del Sahara occidentale. L’impegno dell’Algeria per i saharawi è più una disputa diretta col Marocco che una reale agenda volta a creare un’entità statale indipendente, che vedo ormai molto difficile”. Stesso discorso anche per la Palestina.

Per Pedde, “Israele persegue una gestione spregiudicata della propria sicurezza, che va dal modo in cui viola la sovranità di Paesi terzi agli abusi contro la comunità arabo-palestinese”. D’altra parte, sottolinea l’esperto, “le critiche feroci della comunità internazionale non bastano a determinare un cambiamento”. Ci sono poi le nuove generazioni palestinesi: “Si sono fatte protagoniste, anche in piazza, per denunciare le violazioni ma anche per contestare il fallimento della vecchia gerarchia dell’Autorità nazionale palestinese e di Fatah nel garantire un futuro”. La ricetta per porre rimedio a tanti focolai di tensioni non è né semplice né scontata. Secondo il direttore dell’Institute for Global Studies, però, “un reale sostegno economico della comunità internazionale verso le popolazione di questi Paesi sarebbe di grande aiuto”. Pedde conclude: “Senza, è difficile immaginare sviluppo e stabilità di ampio respiro”.

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