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Gaza, il grido d’allarme delle ong: “A Rafah la gente si saluta, sa che morirà”

Educaid, Amnesty e Azione contro la Fame raccontano di una situazione catastrofica: "Qualsiasi iniziativa che non sia un cessate il fuoco immediato rappresenterebbe un fallimento storico nella protezione dei civili"

Pubblicato:14-02-2024 11:22
Ultimo aggiornamento:14-02-2024 11:26

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ROMA – “A Rafah la situazione è drammatica: è qui che ormai si concentra la maggior parte della popolazione palestinese, interamente sfollata, costretta a stare in un’area molto piccola di appena 60 chilometri quadrati. Le persone con cui siamo in contatto sono terrorizzate e non sanno dove andare. Ci sono famiglie che sono dovute fuggire già cinque volte, l’ultima meta è Rafah. Durante l’operazione militare tra domenica e lunedì, in cui Israele ha liberato due ostaggi, la gente ha iniziato a salutare i figli e gli amici perché convinta che l’invasione di terra fosse iniziata e non ci sarebbe stato scampo alla morte. Ora continuano a chiederci aiuto, ma sanno che la loro voce non viene ascoltata”. Con l’agenzia Dire parla Yousef Hamdouna, responsabile progetti nella Striscia di Gaza di Educaid, organizzazione italiana impegnata da vari anni a beneficio dei civili palestinesi.

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L’operatore umanitario, originario di Gaza dove ha ancora la famiglia, ma residente in Italia, ha preso parte a un sit-in davanti al Parlamento, a Roma, organizzato dall’intergruppo parlamentare per la pace in Palestina, a cui hanno aderito varie organizzazioni per chiedere a governo e parlamento di sostenere l’appello per il cessate il fuoco a Gaza, dove le vittime civili stanno per raggiungere quota 28.500 dal 7 ottobre, quando Hamas ha lanciato un’offensiva nel sud di Israele in cui sono morte 1200 persone, e altre 240 sono state prese in ostaggio.

Sollecitato sulla posizione assunta da Unione europea e Lega araba rispetto al conflitto, Hamdouna risponde: “Non c’è un’azione politica vera e propria, in realtà, e non si spiega il perché. Non c’è un’azione chiara e forte per cercare di porre fine a quanto sta accadendo. Non si tratta più di politica, si tratta di salvare esseri umani che da quattro mesi non hanno più cibo o acqua e continuano ad essere bombardati. Gli aiuti in ingresso non sono assolutamente in grado di rispondere al fabbisogno della popolazione. Questo silenzio- conclude- sta uccidendo più delle bombe“.

NOURY (AMNESTY): DA ANNI ISRAELE CI NEGA L’INGRESSO A GAZA

Oltre ad essere insufficienti, spesso gli aiuti non arrivano proprio. È quanto dichiara Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International, a proposito dell’impossibilità dei rappresentanti dell’organizzazione che monitora i diritti umani nel mondo a ottenere da Israele i permessi per entrare nella Striscia di Gaza. “A Gaza non riusciamo ad avere una presenza fissa da anni”. Il portavoce, presente a un sit-in davanti al parlamento per chiedere che le istituzioni italiane chiedano il cessate il fuoco nella Striscia, risponde ai giornalisti in merito alla decisione del governo israeliano di negare l’ingresso a Francesca Albanese, relatrice speciale Onu sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati, per aver dichiarato, come riportano fonti di stampa concordanti, che l’aggressione di Hamas del 7 ottobre contro il sud di Israele non sarebbe motivata dall’estremismo religioso, bensì sarebbe stata una “risposta all’oppressione israeliana”.

“Siamo completamente dalla sua parte. Il lavoro delle organizzazioni per i diritti umani è fondamentale e non va ostacolato, così come quello delle Nazioni Unite”, continua Noury, riferendo che “in Israele e Cisgiordania abbiamo una nostra sede” ma “non a Gaza da diversi anni. Continuiamo a chiedere ma, o non ci viene risposto, o ci viene riposto di no. Dovrebbero esserci garanzie per i giornalisti, le organizzazioni non governative e gli esperti indipendenti di poter entrare a Gaza per vedere quello che sta accadendo. Perché, da quello che abbiamo potuto riscontrare, sono emerse cose terribili. Chi lo sa cosa non abbiamo potuto conoscere”. Noury continua: “Lavoriamo con tutte le difficoltà che incontrano anche le altre organizzazioni palestinesi e israeliane. Anche queste ultime stanno facendo un enorme lavoro“. Grazie al monitoraggio condotto dai ricercatori, assicura Noury, “siamo riusciti a documentare crimini di guerra terribili. Gli ultimi ieri a Rafah: edifici sbriciolati dove abitavano famiglie intere. Tre attacchi su quattro che abbiamo verificato sono avvenuti di notte, mentre la gente dormiva. Molti edifici sono pieni di persone sfollate da Gaza City o Khan Younis”.

Alla Dire, che gli domanda quale sia invece la situazione in Cisgiordania e Gerusalemme Est, Noury risponde: “Israele, con le sue forze militari, la polizia di frontiera e i coloni, ha scatenato una campagna di brutale violenza contro la popolazione civile. Il 2023 è stato l’anno più sanguinoso in termini di civili uccisi, la metà dei quali sono morti dopo il 7 ottobre. C’è completa impunità. Sappiamo che le forze israeliane hanno sparato contro manifestanti pacifici e persino contro i festeggiamenti per il rilascio dei prigionieri palestinesi, durante quella breve tregua umanitaria di fine novembre. Una situazione che era già fuori controllo rischia di diventarlo ancora di più”.

GAZA, AZIONE CONTRO FAME: RISCHIAMO DI DOVER BLOCCARE AUTI

“Se le operazioni militari a Rafah continueranno e si espanderanno, Azione contro la Fame sarà costretta a sospendere le sue attività a Rafah. Anche se lavoriamo in tutta la Striscia, questa è una delle aree in cui abbiamo le operazioni più attive e dove si trovano molti dei nostri colleghi“: così avverte Noelia Monge, responsabile delle emergenze di Azione contro la Fame, in una nota in cui l’organizzazione affronta il tema dell’attuale escalation di violenza nel sud di Gaza, che rappresenta un’ulteriore minaccia per gli aiuti umanitari in una crisi senza precedenti. Monge continua: “Queste attività, che comprendono il trasporto dell’acqua, la raccolta dei rifiuti solidi, i servizi di pulizia e la distribuzione di kit igienici e di cibo – attività salvavita – verrebbero praticamente interrotte, privando una popolazione dei suoi bisogni più elementari e costringendola a trasferirsi ancora una volta nel momento in cui ha più bisogno di noi. Dieci membri del nostro staff e le loro famiglie saranno costretti a fuggire, ancora una volta, e perderemo l’accesso al nostro ufficio, al magazzino e alla foresteria di recente costruzione”. Negli ultimi quattro mesi, Azione contro la Fame ha fornito cesti di cibo fresco e secco, assistenza in denaro e attività idriche e igieniche a circa 320mila persone intrappolate a Rafah, tra cui donne incinte, madri che allattano, neonati e famiglie con bambini a carico. L’interruzione di queste attività avrebbe ripercussioni incalcolabili, soprattutto quando più di mezzo milione di persone si trova ad affrontare condizioni catastrofiche di insicurezza alimentare, ancora più allarmante perché si tratta della percentuale più alta rispetto ad altre popolazioni in crisi di sicurezza alimentare, e al di sopra dei record globali della classificazione integrata delle fasi di sicurezza alimentare (Ipc).

Inoltre, Azione contro la Fame fa presente che la grave mancanza di acqua e servizi igienici adeguati ha portato al diffondersi di diarrea e malattie. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riportato più di 161mila casi di diarrea (di cui circa 85mila in bambini sotto i cinque anni) e quasi 246mila casi di malattie respiratorie acute nella Striscia di Gaza. Tuttavia, i servizi di pulizia, le latrine mobili e la raccolta dei rifiuti solidi, portati avanti da Azione contro la Fame, raggiungono almeno 350mila persone a Rafah. Altri servizi, come rifugi e kit igienici, raggiungono più di 87mila persone. Le operazioni militari a Rafah minacciano la continuità di questi servizi, che mitigano una crisi di natura complessa. La risposta umanitaria dell’organizzazione sta già subendo gravi limitazioni a Gaza a causa della continua mancanza di sicurezza, accesso, forniture e spazio per operare. Azione contro la Fame avverte che qualsiasi iniziativa che non sia un cessate il fuoco immediato e un massiccio aumento degli aiuti rappresenterebbe un fallimento storico nella protezione dei civili nei conflitti armati e invita la comunità internazionale e i donatori a prendere tutte le misure possibili per raggiungere questo obiettivo: proteggere i civili, garantire gli aiuti umanitari ed evitare ripercussioni ancora più gravi da questa crisi.

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