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Kenya, l’esercito come enpowerment femminile

Le forze armate accettano sempre più spesso donne tra le file di militari, ma anche all'interno della catena di comando

Pubblicato:09-10-2016 13:11
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 09:09

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kenyaROMA – Il Kenya è considerato un paese particolarmente stabile dagli osservatori internazionali, se paragonato ai suoi vicini regionali, affetti da gravi situazioni di conflitto. Tale stabilità è anche ‘esportata’ nel resto del Corno d’Africa attraverso la partecipazione di Nairobi alle varie missioni di peacekeeping dell’Onu e dell’Ua nel tra cui ad esempio quella nell’Amisom – la missione dell’Unione africana in Somalia – fatto che lo promuovono ad attore chiave nella lotta al terrorismo e ai vari movimenti armati. Come però osservano gli autori di uno studio pubblicato dall‘Institute for security strategy (Iss), con lo scoppio della crisi del 2007-2008 (causa di oltre mille morti) la sicurezza interna è tornata ad essere fragile. Inoltre l’avvento di gruppi armati come Al-Shabaab (l’ultimo attacco è avvenuto proprio l’altro ieri nel nord-est, che ha provocato sei morti tra i civili), il Consiglio rivoluzionario di Mombasa (Mrc) insieme ai vari gruppuscoli delle regioni settentrionali, la vita di centinaia di migliaia di persone è quotidianamente messa a rischio. A pagare il prezzo più alto le donne: il 37% ha subito violenza fisica almeno una volta nella vita, mentre il 17% è stata vittima di abusi sessuali. Rispetto a tutte queste sfide l’esercito keniano (Kenyan defence force – Kdf) “svolge un ruolo concreto e di alto profilo nelle vite dei civili della Somalia e del Kenya in generale, e delle donne in particolare”, come scrivono gli autori dello studio dell’Iss. Il Kdf ha messo infatti in campo varie operazioni “che mirano a contrastare violenze sessuali e di genere”.

Oltre a garantire la loro protezione, le istituzioni – aderendo alle varie risoluzioni Onu che promuovono l’uguaglianza di genere e le pari opportunità – hanno messo in campo varie misure per coinvolgere di più le donne nella vita istituzionale e lavorativa. Una linea politica confermata anche nella Costituzione promulgata nel 2010. All’articolo 27 si legge: “Uomini e donne hanno eguale diritto di trattamento, incluso il diritto a godere di eguali opportunità nella sfera politica, economica, culturale e sociale”. Allo studio del governo è inoltre una legge dal titolo ‘National gender and development policy‘ (Nap), che si esprime in materia di violenze sessuali, domestiche e matrimoni precoci. Già approvato invece a marzo scorso il Piano d’azione nazionale che, come tiene a sottolineare lo studio dell’Iss, ha tenuto a coinvolgere nella sua stesura una larga parte della società civile, tra cui naturalmente le associazioni femminili. Il Nap contiene tutta una serie di affermazioni che invocano a una maggiore inclusione delle donne nella vita pubblica, incluso il settore della sicurezza. Le forze armate quindi, sulla scia di queste posizioni, accettano sempre più spesso donne tra le file di militari, ma anche all’interno della catena di comando. Nel 2013 ad esempio è stata nominata la prima donna segretario della Difesa: Raychelle Omamo, già ambasciatrice, è inoltre entrata nel Consiglio della difesa, organo deputato a visionare le attività del Kdf. Le donne sono state incluse anche nei corpi di pace delle operazioni Onu e Ua.

Il coinvolgimento femminile nelle forze armate ha però una tradizione che risale agli anni Settanta: nel 1971 furono istituiti i Women service corps, corpi speciali di supporto alle unità di combattimento nei settori dell’amministrazione, del supporto medico e logistico e delle comunicazioni. Negli anni Novanta tali corpi furono sciolti per consentire alle donne di essere assorbite nei tre rami delle forze armate, ma solo con la Costituzione del 2010 tale linea è stata implementata: nel 2001 nessuna donna ad esempio ricopriva ruoli di comando in Marina. Nel 2011 – scrive ancora l’Institute – in aeronautica si contano 11 donne ufficiali e 115 nei ranghi inferiori. Ad oggi se ne contano poi 233 tra i peacekeepers (il 19% del totale). Nel 2014 infine, il Capo delle Forze armate, il generale Samsom Mwathethe ha assunto l’impegno di portare al 30% le ‘quote rosa’. A questo progetto contribuisce il fatto che vari gruppi etnici o religiosi non considerano la carriera militare ‘disdicevole’ per le donne, al contrario la incoraggiano. Questo contribuisce a un cambiamento più generale della società, soprattutto laddove altre minoranze continuano a relegare la donna ai soli compiti di madre e sposa.


di Alessandra Fabbretti, giornalista

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