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Alessandra Matteuzzi uccisa per vendetta. Padovani ha finto di essere malato di mente

Depositate le motivazioni della sentenza che ha condannato l'ex calciatore all'ergastolo

Pubblicato:08-03-2024 18:29
Ultimo aggiornamento:08-03-2024 18:29

processo matteuzzi
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BOLOGNA – Giovanni Padovani mise fine alla vita di Alessandra Matteuzzi non per gelosia ma per un “irresistibile desiderio di vendetta”. È un passaggio delle motivazioni della sentenza con cui il 28enne ex calciatore dilettante, lo scorso 12 febbraio, è stato condannato all’ergastolo per aver ucciso l’ex compagna 56enne nell’agosto del 2022 a Bologna. “Non tanto un ‘omicidio d’amore’, quanto piuttosto un ‘omicidio d’onore’, sia pure in una malintesa accezione di quest’ultimo”, si legge in una delle 106 pagine delle motivazioni che sono state depositate oggi. Per la Corte d’Assise presieduta dal giudice Domenico Pasquariello, dunque, “è improprio attribuire l’omicidio a un’insana gelosia dell’imputato, la quale, semmai, costituì il movente del delitto di atti persecutori, mentre l’omicidio fu motivato da un irresistibile desiderio di vendetta, uno tra i sentimenti più irragionevoli, eppure più imperativi”.

panchina matteuzzi

Nel corso del processo è emerso l’atteggiamento di “ossessivo controllo” da parte di Padovani nei confronti di Matteuzzi e poi “l’intento punitivo nei confronti della vittima, considerata come appartenenza, motivato dalla gelosia e dalla mancata accettazione della decisione di Matteuzzi di porre fine alla loro relazione“.

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PADOVANI SI È FINTO MALATO DI MENTE

I giudici si soffermano poi sul “carattere ossessivo-maniacale delle forme di controllo che l’imputato attuava” nei confronti della donna e su “come fosse stato spinto da una forza irresistibile, ingenerata da un sentimento di rancore e da un senso di frustrazione, a ritornare a Bologna per assassinarla”. Da parte dei periti l’imputato “è stato ritenuto pienamente capace di intendere e di volere al momento del fatto“, scrive la Corte, aggiungendo che dopo l’omicidio e l’arresto “le bizzarrie comportamentali dell’imputato, talora anche grossolanamente enfatizzate, seguite sovente da prese di posizione invece consapevoli e responsabili, soprattutto negli snodi decisivi del processo; le risultanze dei test, con risposte sbagliate anche alle domande più banali e, infine, l’asserzione di una tardiva insorgenza di sintomi psicotici, forniscano indicazioni che sembrano coniugarsi tra loro soltanto nella prospettiva di una intenzionale messa in scena da parte dell’imputato“: Padovani, insomma, per i giudici ha “simulato i sintomi di una malattia psicopatologica”.

MATTEUZZI UCCISA CON VIOLENZA INAUDITA

Quanto ai colpi inferti a Matteuzzi e alla conseguente responsabilità dell’omicidio, Padovani “ha reso piena confessione, sia pure dovendo constatarsi come abbia fornito scarni elementi sul tema, spostando l’attenzione invece su altri profili, per i quali è risultato addirittura straripante- rilevano i giudici- e come abbia cercato di descrivere un contesto confacente con un suo raptus improvviso”. Per la Corte comunque non ci sono dubbi sulla “precisa volontà dell’imputato di privare la donna della vita”, considerando innanzitutto “il numero, la qualità e la direzione dei colpi inferti verso organi vitali. Infatti, a giudicare dalle molteplici lesioni riportate dalla donna, si dovette trattare di un numero di colpi superiori a 15, forse anche 20, alcuni dei quali micidiali, assestati con estrema violenza in direzione di punti vitali, soprattutto la testa e il viso”. Si consideri, ricorda la Corte, “che il primo colpo contro il cranio ebbe l’effetto di spezzare l’asta del martello. Dopo il danneggiamento dell’utensile, Padovani adoperò la propria forza fisica e, infine, con un gesto che rimarrà a lungo a ricordare questo efferato omicidio, trasformò in un’arma micidiale una panchina in metallo reperita nei pressi del porticato condominiale, a dimostrazione della pervicacia nel voler portare a termine il proprio proposito criminoso”. Padovani, inoltre, “continuò a colpire la donna imperterrito anche mentre sentiva sopraggiungere alcuni condomini- ricostruiscono i giudici- e addirittura dopo che era stato separato da alcuni di essi dal corpo ormai esanime della vittima, quasi come se fosse concentrato unicamente nel portare a termine il suo orribile compito”.

LA GELOSIA È UN’AGGRAVANTE

Nelle motivazioni della sentenza, poi, si legge che va ritenuta come acquisita la prova che la condotta dell’ex calciatore “non sia stata determinata da un mero moto d’impeto, ma sia maturata e si sia progressivamente radicata negli intenti dell’omicida, sia stata persino preannunciata nelle confidenze fatte a terzi e alla madre e nelle annotazioni sul cellulare, e poi attuata secondo un piano predeterminato, comprensivo della scelta dell’arma da usare e del luogo in cui colpire”. In un altro passaggio, poi, la Corte segnala come “recentemente, in merito a delitti analoghi, la Suprema Corte abbia sottolineato che la gelosia non possa considerarsi in senso favorevole all’imputato, come stato emotivo e passionale che, in qualche modo, possa incidere sulla concessione delle attenuanti generiche, poiché ciò contrasta con l’orientamento dominante costante contrario, secondo il quale la gelosia integra l’aggravante dei motivi futili”.

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