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In viaggio verso il valico di Rafah: “Garantire gli aiuti a Gaza”

La delegazione italiana- di cui fa parte la cronista della Dire-invoca il cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi israeliani. "Una gita scolastica" per i critici, il bisogno di proteggere l'ingresso degli aiuti umanitari per gli altri

Pubblicato:05-03-2024 10:06
Ultimo aggiornamento:05-03-2024 17:00

sinai
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AL ARISH – Non sempre il deserto è come lo immaginiamo: sabbia e dune, sì, ma anche alberi e vegetazione. E qui anche edifici, chilometri di tralicci, un’ampia autostrada e un certo via vai. È cosi che appare la penisola del Sinai, triangolo di terra diviso tra Egitto a est e Israele a ovest (che ne strappò al Cairo una porzione dopo la guerra dei Sei giorni del 1967). Un pullman composto da una quarantina di italiani tra 14 parlamentari d’opposizione (Pd, M5S e Avs), ong e giornalisti la percorre usando l’autostrada costiera, quella che – partendo dal Cairo – si imbocca superando il tunnel che passa sotto il Canale di Suez. Una missione volta a raggiungere il valico di Rafah – porta d’accesso per gli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza – per accendere i riflettori sulla crisi che ha ucciso o ferito oltre 100mila palestinesi (tre quarti dei morti sono donne e bambini), invocare il rilascio degli ostaggi israeliani catturati negli assalti di Hamas del 7 ottobre e ottenere un immediato cessate il fuoco. Due milioni e 300mila palestinesi da quasi cinque mesi stanno morendo di fame, sete, attacchi armati o mancanza di cure. Sono gli effetti dell’offensiva militare di Israele che, invocando il diritto all’autodifesa, ha risposto così agli attacchi del 7 ottobre, che hanno avuto un bilancio di circa 1200 vittime e 240 persone prese in ostaggio.

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I vertici delle agenzie umanitarie dell’Onu concordano nel dire che “non ci sono più parole” per descrivere l’entità della catastrofe. Ma raggiungere il valico di Rafah per la delegazione non è semplice. È una zona sensibile, militarizzata, che mette in difficoltà i già complessi rapporti tra Egitto e Israele. Soprattutto da quando Il Cairo ha fatto intendere di non essere disposto ad accogliere alcun esodo di profughi. Dopo il 7 ottobre, le forze militari israeliane hanno martellato la Striscia cominciando dal nord fino a far concentrare l’85% della popolazione a sud, a Rafah, ultima località al confine con l’Egitto. E di recente viene bombardata anche quella. Così, per raggiungere il valico, da cui Gaza si potrà solo guardare da lontano, servono tanti permessi, un lavoro che ha impegnato al massimo l’Associazione delle organizzazioni di solidarietà e cooperazione internazionale (Aoi), iniziatrice della missione con Arci e Assopace Palestina, e che ha visto il decisivo contributo dell’ambasciata italiana al Cairo. A partire dal checkpoint per entrare nel Sinai: quelli che da lontano sembrerebbero normali caselli autostradali sono enormi strutture in lamiera dotate di rilevatori con a guardia l’esercito. Uomini e mezzi vanno controllati accuratamente perché, ci spiegano, “bisogna scongiurare che qualcuno riesca a piazzare una bomba sotto al canale”, tra le prime fonti di guadagno per lo Stato. Ci sono poi i rischi, ormai minimi ma comunque reali, di imbattersi in gruppi armati.


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La nascita del gruppo Stato islamico in Siria e Iraq nel 2014 ha visto cellule arrivare fin qui, e qualcosa è rimasto. Si parte allora a mezzogiorno dal Cairo per coprire circa 300 chilometri, il navigatore indica quattro ore. Inoltre viaggiare col buio non è consigliato. Ma i tanti checkpoint militari che si incontrano ancora lungo il tragitto, rallentano il viaggio. Alla fine, l’arrivo ad Al-Arish, località portuale a pochi chilometri dal confine con Gaza, dove la carovana trascorre la notte, non avviene prima delle 21. Al mattino si riparte per il valico. “Una gita scolastica” per i critici, il bisogno di proteggere l’ingresso degli aiuti umanitari per gli altri, perché se prima della guerra entravano 500 tir di aiuti al giorno, ora è tanto se ne passano cento o 150. I camion in coda sono visibili ben prima di arrivare ad Al-Arish, molti hanno il logo dell’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi, mentre alcuni portano bandiere dei Paesi donatori. La Mezzaluna rossa sostiene ce ne siano in totale 1500 che attendono di poter entrare. “Israele, essendo a Gaza la potenza occupante come stabilito dal diritto internazionale e indirettamente riconosciuto dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, ha degli obblighi secondo il diritto umanitario, come assicurare gli approvvigionamenti alla popolazione” spiega Alessandra Annoni, docente di diritto internazionale all’università di Ferrara. “Noi parliamo del tappo di Rafah ma quello è il passaggio con l’Egitto. Non dimentichiamo che la stragrande maggioranza della Striscia confina con Israele, che potrebbe quindi fornire direttamente accesso agli aiuti, ottenendo così anche il pieno controllo di ciò che entra”, ragione alla base degli attuali rallentamenti negli ingressi.

Così, mentre la più grande delegazione di parlamentari dalla nuova vampata del conflitto mediorientale si avvia verso il valico, a Tel Aviv ne arriva un’altra del Partito dei Conservatori europei (Ecr), su invito di Gila Gamliel, ministro dell’Intelligence – e componente dell’ufficio di presidenza di Ecr in rappresentanza del Likud – a cui ha preso parte anche un deputato di Fratelli d’Italia. Obiettivo: visitare i luoghi degli attacchi e esprimere vicinanza a Israele.

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