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BOLOGNA – Aldo è un uomo semplice, che vive la sua vita sull’Appennino bolognese. Lavora i campi, si innamora. Poi, però, arriva la guerra e Aldo viene mandato a combattere in Africa. Torna malato di epilessia; si sposa con Carolina, il suo grande amore, ha tre figli, può tornare a fare le sue lunghe passeggiate solitarie che tanto ama. Fino a quando la guerra non arriva anche in Italia e Aldo, poco alla volta, inesorabilmente, perde tutto: Carolina muore per lo scoppio di una granata, i figli gli vengono tolti e sono portati in un orfanatrofio ad Arezzo, e lui viene ‘ricoverato’ in manicomio dove sarà sottoposto a trattamenti disumani. Quella di Aldo è la storia, vera, del nonno di Alessandro Marchi che su tutto questo ha scritto un libro, “Tu non ci credere mai“.
Due le voci narranti: quella dello stesso Aldo e quella di Marino bambino, il figlio più piccolo e papà di Alessandro. E’ un romanzo familiare, ma anche storico perché racconta della Seconda guerra mondiale e dei manicomi. Scrivendo con una lucidità che fa risaltare ancora di più le emozioni e i sentimenti che emergono, Marchi ha fatto di suo nonno Aldo un personaggio, un uomo, indimenticabile.
No, non se n’è parlato praticamente mai, d’altronde è morto da parecchie decine di anni… E’ proprio per questo che m’è scattata la scintilla di volerne sapere un po’ di più: un giorno stavo facendo la doccia, mi ricordo benissimo, e mi sono detto: “Com’è possibile che mio padre e mia zia abbiano due versioni differenti sul perché sia tornato dall’Africa con l’epilessia?”. E così, ho cominciato a scrivere. La storia era già tutta lì, dovevo solo sbrogliarla.
Tutto, perché non sapevo quasi nulla. C’era qualcosa che impediva davvero di parlarne, a casa. Credo una sorta di pudore, in parte condizionato anche dal pregiudizio che chi è stato in manicomio sia un matto, e dei matti ci si debba vergognare.
A parte qualche fotografia e i documenti dell’Ospedale psichiatrico mi sono basato soprattutto sui ricordi di mia zia Ivanna, la più grande dei tre figli. I passaggi storici dunque sono documentati, il resto è frutto della fantasia.
Non solo i miei nonni. Tutti i nonni. Ogni singola persona che ci ha preceduto, con le sue scelte individuali, ha fatto la Storia. La Storia con la “S” maiuscola, quella che studiamo sui libri, è fatta dalle tante piccole storie dei singoli esseri umani. C’è chi ha avuto una posizione per la quale il peso specifico delle proprie decisioni ha portato conseguenze importanti immediate nella Storia dell’Umanità, e chi invece no. Ma tutti i ruscelletti ingrossano e hanno ingrossato il fiume della Storia.
Il titolo originale era “Se ti dicono che è stato un cavallo”. Viene da ciò che ti dicevo prima, sul perché nonno Aldo sia tornato dalla guerra africana epilettico. Secondo mio padre gli era stata bruciata la tenda all’accampamento mentre dormiva, e ne era rimasto shockato. Secondo mia zia invece era stato disarcionato da un cavallo e aveva battuto la testa. Da qui il titolo, che completo sarebbe stato “Se ti dicono che è stato un cavallo, tu non ci credere mai”, del quale è rimasta solo la seconda parte. E’ un appello a non fermarsi alla prima verità, a non limitarsi a ciò che si vede, a non accontentarsi, a ragionare con la propria testa. Il che non vuole significare, sia chiaro, il “mi sono informato su internet e ne so quanto un medico primario” che va tanto in voga ora, ma mantenere indipendenza di pensiero e capacità critica.
Colpa dell’ignoranza! Anche se i referti medici parlano di epilessia, ci vuole poco ad immaginare che potesse essere anche quella che oggi chiamiamo sindrome post-traumatica da stress – frequentissima fra le truppe che sono state in guerra e oggi ampiamente riconosciuta. Ma non importa che fosse l’una o l’altra, non cambia il concetto.
E’ l’ignoranza il nostro male, sempre lo stesso. Quello che ci porta ad escludere i diversi, a ghettizzarli, a respingerli, ad averne paura. Nella storia gli esempi tragici sono tantissimi, e oggi ancora ripetiamo gli stessi errori, sia nei confronti delle persone che vengono da fuori, sia creando fra noi solchi del tutto artificiali. Siamo specializzati in dividerci, specializzati nel farci la guerra, nel sospettare, nell’odiare, nel trovare le differenze anziché le similitudini. E’ tristissimo, così ci precludiamo la possibilità di conoscere nuove persone, nuove storie, nuovi mondi.
Scrivendo questo libro spero di aver in minima parte riscattato la memoria delle persone che sono dentro alle pagine, soprattutto quella di mio nonno Aldo. E’ triste da dire, ma ho percepito in famiglia, soprattutto parlando con mia zia, ancora un po’ di quell’imbarazzo cui accennavo prima per il fatto di avere un padre in manicomio. Credo si tratti di quell’imbarazzo indotto dalla società che – attorno a te – non vede l’ora di etichettarti con i propri pregiudizi e che addita il ricoverato come “matto” da emarginare. Li ho voluti smontare, creando un personaggio intelligente e curioso, che mantiene sempre la testa vigile, che continua a ragionare, che non si arrende.
Per quanto riguarda la parte di mio padre… Gli avevo già detto, in passato, di quanto dovesse essere orgoglioso di avere costruito una famiglia sana partendo da un orfanotrofio, senza aiuti. Ha saputo fare il padre alla grande pur non avendo visto il suo che una manciata di volte. Lui e mia madre hanno consentito a due figli di fare l’Università dando loro grande sicurezza. C’è di che andarne fieri.
Non molto, forse non siamo gente che usa tante parole. Quando ho iniziato a scrivere il romanzo era un momento molto diverso da questo, nella mia vita. Era il 2014 quando l’ho finito, ero disoccupato e mio padre stava benissimo. Un paio di anni dopo ha scoperto di avere, dalla sera alla mattina, un tumore che se l’è portato via in pochi mesi. E’ morto lo scorso anno. Non ha fatto in tempo a vedere il libro pubblicato, e questo mi dispiace moltissimo. Lo sento sempre accanto, e quando mi hanno chiamato per dirmi della vittoria nel concorso “Fai viaggiare la tua Storia”, ho subito pensato fosse stato lui.
No, non lo è: per arrivarci ho vinto il Premio Letterario “Fai viaggiare la tua storia“, organizzato da Libromania e Autogrill. Il premio consisteva esattamente in questo: un editing professionale, una distribuzione mostruosa e il supporto di una vera Casa Editrice. Credo che abbiano fatto esattamente quanto dovrebbe fare un editore per essere tale, e non un mero stampatore: hanno cercato una voce nuova, l’hanno sostenuta e ci hanno investito tanto. I risultati numerici, mi dicono, gli stanno dando ragione.
Alessandro Marchi è nato a Bologna nel 1979, dove si è laureato in Storia contemporanea. Vive un po’ lì e un po’ a Bruxelles per motivi di lavoro. Ha esordito nella narrativa con Parada Ópera (2009) e Fegato e Cuore (2012). Si è classificato primo nell’edizione 2018 del premio ‘Fai viaggiare la tua storia’ con Tu non ci credere mai.
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