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“Giorgia” e il romanzo italiano del soprannome elettorale: da “Giovanni Democrazia” a “detto Petiti, Pettiti, Pettitti, Petti”

Il brand-naming in lista è alto artigianato partitico. In principio fu Pannella, ma a livello locale ci sono i veri campioni

Pubblicato:29-04-2024 10:27
Ultimo aggiornamento:02-05-2024 15:28

Giorgia Meloni
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ROMA – Si fa presto a scrivere semplicemente “Giorgia”. Il brand-naming elettorale è un’arte che non ammette timidezze. Il “detto” va usato come una rete a strascico, per dragare i fondali del voto, raccogliere di tutto un po’. La legge lo consente e disconosce l’ignoranza. Se alla Presidente del Consiglio “Meloni” non basta a rappresentarsi donna del popolo, il celeberrimo “Giacinto Pannella detto Marco” ha fatto accademia. Ma la storia delle urne è un romanzo di soprannomi più o meno abbaglianti, furbi, affilati. Intercettare una preferenza, anche di striscio, può far la differenza tra un seggio e l’oblio.

Il principio legale ha un nome latino: “favor voti”. La conservazione del voto. Comanda l’esplicita volontà dell’elettore, più che la precisione burocratica. L’articolo 69 del testo unico per l’elezione della Camera dice che “la validità dei voti nella scheda deve essere ammessa ogni qualvolta possa desumersi la volontà effettiva dell’elettore”. E qui entra in gioco il soprannome. Per evitare ricorsi e conflitti di attribuzione i partiti si muovono preventivamente, “registrando” nelle liste tutti i possibili “detto”, in un rosario spesso avvincente di fantasia popolare e localismi. Di cui i campioni furono, forse, due aspiranti consiglieri comunali di Ischia: “Maurizio De Luise detto Maurizio il Popolo” e “Giovanni Sorrentino detto Giovanni Democrazia”.

Celeberrimo altrettanto il caso laziale del candidato consigliere di Azione Federico Petitti, “detto Petiti, Pettiti, Pettitti, Petti”. Come lui Brunella Bassetti a Viterbo, “detta Bruna, Basetti, Basseti”. O Alex Dalla Bella, a Lodi: “detto Dalla, Bella, Di Bella, Della Bella”, e Alberto Eraldo Martoglio a Milano, “detto Martolio detto Mortolio detto Martiglio”. Veri rabdomanti del refuso. Altresì in Lombardia si candidarono per Forza Italia Daniele Cassamagnaghi, “detto Cassa detto Magnaghi”, e Silvia Maullu di Fratelli d’Italia, “detta Maullo detta Maulo detta Maulu”. Più sobriamente il sindaco di Milano si iscrisse come “Giuseppe Sala detto Beppe”. A Napoli un caso a parte: Pietro Mastronzo, stanco dei giochini di parola da prima elementare (“sei bravo, Mastronzo…”), cambiò il cognome in Mastranzo. A Viterbo chissà che fine fece Massimo Ranucci “detto Stromberg”.


Ma il soprannome è anche espediente tattico, un dissuasore. Se nel caso di Meloni “Giorgia” esclude di fatto qualsivoglia altra eventuale Giorgia in lista – il nome diventa marchio – in Sardegna
la candidata consigliera regionale Anita Sirigu sulla scheda veniva indicata come “Anita Sirigu nota come Soru”. Soru però era anche il cognome di un’altra candidata nella circoscrizione di Cagliari: Camilla Soru, del PD, peraltro figlia di Renato Soru, notissimo ex presidente della Sardegna dal 2004 al 2009, candidato pure lui, come presidente sostenuto da Azione e +Europa, la lista di Sirigu detta Soru. Un cortocircuito quasi enigmistico. Un preziosismo di alto artigianato partitico, visto che la stessa Sirigu ammise di anon avere “alcuna idea di tale accostamento, che non corrisponde in alcun modo alla realtà”.

Stessa specialità, medesima sfacciataggine per un candidato consigliere regionale della lista Sgarbi indicato come “Franco Deiana detto Sgarbi”. O uno spiazzante “Alessandro Balli detto Michetti”, come il Michetti Enrico che alle stesse elezioni romane era candidato sindaco. Un po’ come se Meloni si candidasse come “detta Giorgia detta Schlein”. Hanno prodotto serie distopiche per molto meno.

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