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Chernobyl 30 anni dopo, ecco cosa successe la notte del peggior disastro nucleare della Storia

I protagonisti di quella notte sono quasi tutti morti e le ricostruzioni sono ostacolate dalla segretezza imposta dal regime sovietico,

Pubblicato:21-04-2016 13:33
Ultimo aggiornamento:16-12-2020 22:36

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chernobyl

ROMA – La cronaca degli eventi che la notte del 26 aprile 1986 portò al disastro di Chernobyl mostra una serie di incredibili sottovalutazioni dei rischi e una gestione irresponsabile degli eventi. I protagonisti di quella notte sono quasi tutti morti e le ricostruzioni sono ostacolate dalla segretezza imposta dal regime sovietico, la stessa che portò alla comunicazione dei rischi ai Paesi confinanti con tre giorni di ritardo. Tra i protagonisti di quella notte Anatoly Dyatlov, vice ingegnere capo della centrale, e Alexander Akimov, responsabile del turno di notte. Secondo alcune fonti Dyatlov ordinò di procedere con il test di sicurezza programmato benché fosse assai rischioso, ma lo stesso dopo 5 anni di carcere e il crollo dell’Urss smentì tutto parlando di una montatura dei Soviet e spiegando che se avesse saputo che mostro di inefficienza era la centrale non ci avrebbe neanche messo piede. Pare sia stato Akimov a premere il tasto AZ-5, arresto d’emergenza, ma troppo tardi, e sembra che quando i due tecnici che dopo l’esplosione aveva mandato a controllare cosa fosse successo tornarono con la faccia bruciata dalle radiazioni spiegando che il reattore non esisteva più lui non gli credette, facendo perdere ore preziose.

Dyatlov racconta d’aver lasciato la sala di controllo della centrale alle 4 per avvertire Viktor Bryukhanov, direttore dell’impianto, che a sua volta perse altre quattro ore dicendo ai preoccupati apparatchik di Mosca che il reattore era intatto. Akimov morì due settimane dopo avvelenato dalle radiazioni assorbite, Dyatlov nel 1995 di infarto.


Ma cos’era successo? Il test riguardava la capacità del reattore di alimentarsi solo con la sua stessa energia, in caso di interruzioni elettriche generali, un ‘test d’inerzia’ che avveniva con i sistemi automatici di sicurezza disattivati, inclusi quelli di raffredamento d’emergenza. Il reattore, era un sovietico Rbmk di derivazione militare, poco prima dell’esplosione aveva solo sei barre di grafite su oltre 200 inserite a frenare la reazione, le altre erano state sollevate per una serie di errate valutazioni sull’effettivo livello delle reazione che si stava sviluppando. Gli operatori avevano progressivamente ridotto la potenza del reattore rendendolo così instabile, quando rialzandola pensarono di averla riportata a livelli sufficienti procedettero con il test, ma una riduzione del refrigerante e un afflusso di acqua bollente causarono un’impennata della reattività, e le altre barre fatte subito calare non scesero abbastanza: deformate dal calore non scivolavano più negli alloggiamenti. E fu il disastro. Il reattore arrivò a 120 volte la sua potenza massima, il combustibile si frammentò, il nocciolo si fuse, la grafite delle barre di contenimento si incendiò, l’acqua si vaporizzò e si verificò una violenta esplosione che lanciò in aria una piastra pesante mille tonnellate. Dopo due o tre secondi una seconda esplosione e un turbine di aria rovente si alzò per centinaia di metri nel cielo. Le esplosioni distrussero il vessel del reattore e il conseguente incendio che durò almeno dieci giorni causando il rilascio nell’ambiente di un’enorme quantità di materiale radioattivo. Il fumo del reattore in fiamme diffuse numerosi materiali radioattivi, soprattutto iodio (I) e cesio (Cs), su gran parte dell’Europa. Già il 27 aprile il personale della centrale nucleare svedese di Forsmark rilevò un’impennata nella radioattività, la mattina dopo la Svezia chiese lumi a Mosca che negò tutto, ma la sera stessa la Tass battè cinque righe nelle quali parlava di un generico incidente, e in breve in tutta l’Europa si diffuse l’allerta.

Lo I-131, il radioisotopo che maggiormente contribuisce alla dose assorbita dalla tiroide, ha emivita breve (8 giorni) e decade quindi quasi totalmente entro poche settimane dall’incidente. Il Cs-137 radioattivo, che contribuisce sia alla dose esterna sia a quella interna, ha un’emivita molto più lunga (30 anni) ed è ancora misurabile sul suolo e in alcuni cibi in gran parte d’Europa. Le quantità più rilevanti di radionuclidi caddero su vaste aree dell’Unione Sovietica intorno al reattore, aree che si trovano attualmente in Bielorussia, Federazione Russa e Ucraina. Si stima che nel 1986–1987 siano stati inizialmente impiegati circa 350.000 lavoratori nelle operazioni di emergenza e di recupero, inclusi militari, operatori dell’impianto, poliziotti locali e vigili del fuoco. Tra di essi, circa 240.000 lavoratori impiegati nelle operazioni di recupero parteciparono ad attività di mitigazione presso il reattore e nella zona circostante entro un raggio di 30 chilometri. In seguito, il numero di liquidatori registrati salì a 600.000, anche se non tutti furono esposti ad alti livelli di radiazione. Nelle aree di Bielorussia, Federazione Russa e Ucraina classificate come contaminate da radionuclidi vivevano più di cinque milioni di persone. Di queste, circa 400.000 vivevano in aree maggiormente contaminate: 116.000 persone furono evacuate tra la primavera e l’estate del 1986 dall’area circondante il reattore (la zona di esclusione) e trasportate in zone non contaminate. Altre 220.000 persone furono spostate negli anni successivi.

 10MILA KMQ INUTILIZZABILI, INCERTEZZA NUMERO MORTI –  Trent’anni dopo la catastrofe di Chernobyl, il 26 aprile 1986, oltre 10mila chilometri quadrati di territorio sono inutilizzabili per l’attività economica, più di 150mila chilometri quadrati sono le aree contaminate della Bielorussia, Russia e Ucraina e 5 milioni di persone vivono in zone ufficialmente considerate contaminate. A causa degli elevati livelli di contaminazione da plutonio nel raggio di 10 chilometri dalla centrale, ricorda Greenpeace nel briefing ‘L’eredità nucleare di Fukushima e Chernobyl’, l’area non potrà essere ripopolata per i prossimi diecimila anni. Il personale presente nel sito e coloro che intervennero nelle operazioni di emergenza nei primi giorni, in totale circa mille persone, ricevettero le dosi più elevate, in alcuni casi fatali, di radiazioni. Nel tempo, più di 600.000 persone sono state impiegate nelle operazioni di emergenza o di recupero (liquidatori). Il numero esatto delle morti legate al disastro non è noto. Il Chernobyl Forum (riuniva Fao, Onu, Oms, Unep, Undp e altre agenzie Onu con Banca Mondiale, Russia, Bielorussia e Ucraina), nel 2003 stimò 65 decessi certi e 4.000 vittime di tumori e leucemie ‘collegabili’. Iarc, agenzia anticancro dell’Oms, nel 2006 indicò 25mila casi di cancro in eccesso 16mila dei quali fatali al 2065, a 80 anni dall’evento. Nel 2011 Unscear, comitato scientifico delle Nazioni unite dedicato ai rischi da radiazioni, rilevò 6mila casi di cancro alla tiroide fra i bielorussi bambini al tempo dell’incidente, 15 dei quali fatali. Le valutazioni degli ambientalisti sono molto più alte e vanno dalle centinaia di migliaia di casi di tumori alle decine di migliaia di morti nel tempo (40mila secondo lo studio Torch 2016). Numerosi gli studi, ognuno con i suoi numeri, scarsi i dati epidemiologici. Intanto gli ecologisti puntano il dito contro la sottovalutazione dei rischi delle basse esposizioni, accusando il fronte nuclearista di disinformazione.

Mentre la contaminazione da cesio-137 è diminuita qualche decina di volte in molti dei prodotti agricoli, la sua diminuzione è inferiore in prodotti come i funghi e i frutti di bosco. Allo stesso tempo, i livelli nel latte, nella carne bovina e nei prodotti forestali non legnosi, avvertono gli ambientalisti, continuano a superare il contenuto ammissibile per legge di cesio-137. Il lavoro sul campo effettuato da Greenpeace nella regione ucraina di Rivne, nel 2015, ad esempio, ha scoperto nel latte livelli di cesio-137 superiori ai limiti per il consumo. Un’area di 30 chilometri attorno al reattore, attraverso il confine tra Ucraina e Bielorussia, è stata completamente evacuata dopo il disastro a causa degli alti livelli di contaminazione e definita ‘zona di esclusione’. In teoria sarebbe vietato dalla legge, ma migliaia di persone vi lavorano e oltre un centinaio, soprattutto anziani, vi vivono. Nel 2012 l’area è stata anche aperta ai turisti. Disseminati nella zona ci sono, secondo stime, circa 800 depositi di materiale a bassa radioattività prodotto dalle bonifiche. C’è anche lo stagno artificiale parte dei sistemi di raffreddamento della centrale, con acqua gravemente contaminata. Come fa notare il rapporto di Greenpeace ‘Chernobyl: 30 years later’ si tratta di fonti ‘aperte’ di radioattività che diffondono radionuclidi attraverso aria o acqua. Attualmente non esistono piani per il reinsediamento della popolazione o la ripresa dell’attività agricola, ma sono previsti dei progetti di ricerca internazionale. Intanto, benché si stia ripopolando di animali selvatici, la foresta contaminata è a rischio di incendi che potrebbero riportare nell’aria i radionuclidi intrappolati nel legno. Nel caso peggiore, indicano alcune stime, il fumo potrebbe creare un rilascio di radioattività equivalente a un incidente di livello 6 sulla scala Ines (International nuclear events scale) che misura la pericolosità degli incidenti (Chernobyl e Fukushima sono al 7, il massimo).

La Bielorussia ha subito le le peggiori conseguenze dell’incidente. Per via della direzione del vento nelle ore immediatamente successive all’esplosione, la nube radioattiva è ricaduta sopratutto in territorio bielorusso, contaminandone il 23% (46.500 chilometri quadrati) rispetto al 5% di quello ucraino (50mila kmq su 12 province). Colpite anche 19 regioni russe per 60mila kmq. Oggi vaste aree del Paese, soprattutto le regioni meridionali dove vivono centinaia di migliaia di persone, presentano livelli di radioattività molto elevati. Secondo alcune stime del governo bielorusso il disastro è costato almeno 235 miliardi di dollari su un periodo di 30 anni, calcolando l’impatto dei costi sanitari, l’abbandono di miniere e fattorie e la perdita di oltre 200mila ettari di superficie agricola e 1.900 chilometri quadrati di foresta potrebbero essere stime ottimistiche. Oltre il 22% della spesa pubblica della Bielorussia nel suo primo anno di indipendenza è servito per affrontare il disastro, principalmente nella costruzione di case per 135mila sfollati dalle aree contaminate. Oggi si vcalcola che le spese sostenute dal governo per le conseguenze del disastro, soprattutto per la cura dei malati, sia attorno al 5% della spesa pubblica.

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