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Cain (Stanford University): “Estremo e ambiguo, Trump non svela le carte”

Il politologo della Stanford University intervistato dalla Dire a margine di un incontro ospitato a Roma dalla Luiss Guido Carli

Pubblicato:15-11-2016 16:36
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 09:18

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cain1ROMA – “Dicotomie” e “ambiguità volute”, iscritte nel dna di “un costruttore ribelle”, “nato nel Queens e mai accettato dalle élites di Manhattan”, “forse anche per questo eletto presidente”. Bruce Cain, politologo della Stanford University, parla con la Dire a margine di un incontro ospitato a Roma dalla Luiss Guido Carli. Un colloquio che comincia dalla fine: le nomine, annunciate in settimana, del “chief of staff” e del “chief strategist”. Il primo è Reince Priebus, presidente del Partito repubblicano, avvocato con fama di moderazione. Il secondo Stephen Bannon, l’ex direttore del sito ‘Breitbart’, megafono dell’“alternative right”, accusato ora dalla National Association for the Advancement of the Coloured People (Naacp) di “xenofobia e anti-semitismo”.

“C’è una dicotomia, conseguenza del tentativo di tenere insieme le diverse ali della coalizione repubblicana” spiega Cain, esperto di “american politics”, dal Congresso alla presidenza fino ai gruppi di interesse: “Priebus rappresenta l’establishment ostile alla candidatura di Trump‘ e ora, come capo dell’apparato, è negoziatore tra due fazioni. Durante la campagna è stato leale con il magnate, senza mai unirsi al fronte ‘Never Trump’. Sembra la figura giusta per riconciliare, a partire dal rapporto con notabili del partito come Paul Ryan alla Camera e Mitch McConnell al Senato. Un tentativo in apparenza inconciliabile con l’altra scelta, la più controversa. “Puntando su Bannon, Trump guarda all’estrema destra, quella dell’‘alternative right’; una deriva che innervosisce l’establishment, sia repubblicano che democratico”.

Ma dove batterà allora il cuore del presidente-eletto?


A migliaia di chilometri di distanza, alla vigilia delle elezioni, il quotidiano moscovita “Izvestija” definiva Trump il candidato del “capitalismo industriale” contrapposto ai Clinton della finanza. “Un’interpretazione semplicistica ma non sbagliata” commenta il professore. Critico non tanto sulla lettura dei legami di Hillary con i donatori di Wall Street quanto sull’associazione generica del presidente-eletto al capitalismo industriale. Trump proverrebbe piuttosto dal “renegade developer world”, il mondo dei costruttori usi a bancarotte e fallimenti per azzerare i debiti, ambiente “sordido” e più che mai di confine. “Trump è nato nel Queens e non è mai stato accettato dalle élites di Manhattan” sottolinea Cain: “La sua capacità di prendere voti nasce anche da qui”. Un punto di partenza che però tace degli approdi.

L’assunto è che, al netto delle difficoltà di far previsioni, sulle politiche economiche qualcosa si può già intravedere. “Cercherà di far approvare una riforma fiscale che piace a repubblicani, riducendo le aliquote sui redditi personali e puntando su tre soli scaglioni, con la massima attorno al 35 o 30 per cento come piace alla ‘business community’” ragiona Cain. “Poi si impegnerà affinché le multinazionali riportino i loro profitti negli Stati Uniti, in modo da poterli tassare. Non si può escludere che riesca a riportare in patria molti miliardi di dollari, usando il condono fiscale o introducendo regole stabili. In entrambi i casi ci sarà un aumento delle entrate, indispensabile per le tener fede alle promesse sul rilancio delle infrastrutture”.

“America First”, lo slogan è quello. Ma a preoccuparsene, con i poteri della Casa Bianca anzitutto nelle politiche estera e commerciale, non saranno solo i cittadini degli Stati Uniti. “La sua è ambiguità voluta” spiega Cain: “Un buon negoziatore non rivela le proprie carte, anche se in democrazia bisogna rendere conto all’opinione pubblica”. A confermare le difficoltà di previsione sono le dichiarazioni ambivalenti su Cina, il Messico o anche la lotta all’immigrazione irregolare. “Ha parlato di 12 milioni di clandestini da colpire salvo poi riprendere la linea di Barack Obama sui provvedimenti contro chi ha violato la legge”.

Apparenti contraddizioni e incognite certificate, anche sulle ripercussioni del voto americano in Europa. “Il focus ora si sposterà verso la Francia” azzarda Cain, convinto che dalla Brexit alle elezioni dell’8 novembre il minimo comune denominatore sia la “reazione nazionalista contro i mercati aperti”. Infine, un’appendice sulla comunicazione politica: “Trump ha utilizzato i social media per aizzare la gente, in modo molto diverso rispetto allo schema ‘top-down’ di Obama del 2008 e del 2012; su questo ora negli Stati Uniti si sta riflettendo molto e lo stanno facendo soprattutto i media tradizionali, ridotti a inseguire i social media”.

di Vincenzo Giardina, giornalista professionista

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