NEWS:

Angola, a Chiulo si difende la salute di mamme e bambini/FOTOGALLERY

Un reportage dall'ospedale di Chiulo, l’unico riferimento nella zona per i parti cesarei e le trasfusioni di sangue

Pubblicato:31-03-2017 11:10
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 11:04

FacebookLinkedInXEmailWhatsApp

CHIULO (Angola) – Parla solo il mumbi, Teresa Cativala, ma a Chiulo non è un problema. Sotto i portici dell’ospedale le lingue angolane si mischiano al portoghese e dal 2006, quando sono arrivati i cooperanti di Medici con l’Africa Cuamm, si sente pure un po’ d’italiano. “Ho 19 anni e sono al terzo figlio” dice Teresa alla DIRE, mentre al reparto visite prenatali le prendono la pressione. Ride, quando le chiedono se è andata a scuola; certo non tiene il conto delle settimane di gravidanza. Per capire serve l’aiuto di Beatrice Buratti, ostetrica, a Chiulo come volontaria dell’ong fondata a Padova 67 anni fa. “È quasi all’ultimo mese”, spiega, “ma è solo la seconda volta che ci vediamo”. La scena, sorrisi, incoraggiamenti e soprattutto raccomandazioni, si ripete ogni mattina nello stanzino a sinistra superata l’acacia all’ingresso. Le ragazze fanno il test dell’Hiv e poi Beatrice misura la distanza tra sinfisi e bocca dell’utero. Quasi nessuna, infatti, sa dire a che punto è la gravidanza: per capire se il bambino sta crescendo bene, bisogna usare il metro.

Prima dei saluti, le pastiglie di antimalarico e acido folico con ferro, utili per prevenire la spina bifida e come ricostituente. E Teresa? Le visite di controllo avrebbero dovuto essere almeno il doppio. Colpa, in questo e tanti altri casi, della distanza: l’ospedale, nell’estremo sud della macchia angolana, ha un bacino di utenza con un raggio che può superare i cento chilometri. “Vengono qui, piuttosto che nei centri di salute più vicini, che pure sarebbero attrezzati per le visite di controllo” spiega Beatrice. “Camminano chilometri ma poi non tornano con regolarità e saltano gli appuntamenti mensili, mettendosi a rischio”. Chiulo è davvero l’“ultimo miglio”, come dicono i volontari di Medici con l’Africa. Si trova nel Cunene, una regione dove manca personale specializzato, i servizi non arrivano e la salute delle mamme e dei bambini è più a rischio.

“Il Cuamm sostiene l’ospedale coprendo parte dei costi ma soprattutto formando professionalità” sottolinea Judite Ndilimondjo. È la direttrice e spiega una carta geografica: “A Xangongo e Cahama non hanno una sala operatoria e così il nostro ospedale è l’unico riferimento per i parti cesarei e le trasfusioni di sangue”. Lo sa bene Serena Migliaccio, ginecologa arrivata a Chiulo l’anno scorso: “I pochi specializzati lavorano nella capitale Luanda; qui ci sono solo infermieri che hanno imparato sul campo”. Secondo le statistiche, nel Cunene l’80 per cento dei parti non avviene in ospedale ma nelle case. “È difficile fare una stima accurata della quota di gravidanze portate a termine”, avverte Serena, “ma i tassi di mortalità materno-infantile sono senz’altro tra i più elevati in Africa”.


Dall’agosto scorso a Chiulo, nella regione meridionale del Cunene, al confine con la Namibia, si sono aggiunte difficoltà ulteriori. Quasi due terzi dei dipendenti dell’ospedale, 154 su 213, non stanno ricevendo gli stipendi. I pagamenti dovrebbero essere assicurati dal governo, d’intesa con la diocesi locale che è proprietaria della struttura. I ritardi sono legati al crollo del prezzo del petrolio, la principale fonte di valuta estera dell’Angola. “La crisi economica e le difficoltà quotidiane non fanno venire meno le ragioni dell’impegno” assicura la direttrice. Stesso spirito di Cecilia Pini, 29 anni, specializzanda dell’Università di Pisa che da gennaio lavora in pediatria. “I posti disponibili per i bambini sono 30”, dice, “ma ci sono momenti nei quali siamo costretti a metterne due o addirittura quattro per letto”. Spesso è colpa della malaria, che oggi fa delirare Joao, un ragazzino di dieci anni entrato in terapia intensiva. Il moltiplicarsi dei casi si spiega con l’arrivo delle piogge e con difese immunitarie indebolite dalla malnutrizione. I numeri stanno in un rapporto appena redatto: nel 58 per cento dei casi i bimbi accolti in ospedale hanno i sintomi di un’alimentazione insufficiente.

“È una crisi strutturale, legata a lunghi periodi di siccità che si alternano ad alluvioni rovinose” sottolinea Barbara Andreuzzi, responsabile di un programma del Cuamm per il contrasto alla malnutrizione. Ogni mattina parte per un giro di ricognizione nei villaggi. Oggi è a Mujombe, dove l’accoglie Albertina Hivaika, capo tradizionale e tramite prezioso con la comunità. Le donne sono in fila con i bambini in braccio. Prima si prende il perimetro brachiale, poi si controllano i piedini: uno dei segnali della malnutrizione è la presenza di edema. “Nelle situazioni di rischio” spiega Barbara, “si interviene subito con razioni di pasta di burro di arachidi da assumere da una alle quattro volte al giorno, fino a 2mila chilocalorie quotidiane”. Si lavora sull’emergenza, ma guardando anche oltre, in continuità con i 67 anni di storia del Cuamm, dall’Etiopia al Mozambico, dalla Sierra Leone all’Angola. “Cerchiamo di insegnare agli infermieri a riconoscere i segnali d’allarme e a seguire i protocolli più efficaci” riprende Cecilia. Convinta che la parola chiave sia ‘formazione’: “Può fare la differenza, non nell’immediato, ma magari in cinque o dieci anni”.

dal nostro inviato in Angola, Vincenzo Giardina, giornalista professionista

Le notizie del sito Dire sono utilizzabili e riproducibili, a condizione di citare espressamente la fonte Agenzia DIRE e l’indirizzo www.dire.it