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Matteo Messina Denaro, muore il boss delle stragi e della bella vita

Ai magistrati disse: "Se non fosse stato per il tumore al colon non mi avreste mai catturato"

Pubblicato:25-09-2023 09:49
Ultimo aggiornamento:26-09-2023 09:31

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ROMA – Era considerato uno degli eredi dei corleonesi, l’ala dura di Cosa nostra che prese il sopravvento nella guerra di mafia degli anni Ottanta e che lanciò la sfida allo Stato con la strategia stragista del 1992 e 1993, ma Matteo Messina Denaro, sconfitto nella notte da un tumore al colon, aveva poco in comune con lo stile di vita di Totò Riina e Bernardo Provenzano, se non gli ergastoli e la ferocia assassina.

Corleone, le masserie e la ricotta – compagni degli ultimi giorni di libertà di Provenzano – sono lontani fisicamente (e non solo) da Castelvetrano, città natale di ‘u siccu’, nel cuore della provincia di Trapani. Lì ricordano ancora il figlio di don Ciccio Messina Denaro – capomafia indiscusso degli anni Ottanta morto latitante e ritrovato già vestito di tutto punto per il funerale – sfrecciare con auto di lusso, abiti firmati, i suoi inseparabili occhiali da sole a goccia e Rolex al polso lungo la strada che conduce al mare di Triscina. Un boss entrato nelle grazie di Riina ma che amava la vita, le donne e il divertimento. Nel supercarcere de L’Aquila, dove è stato interrogato più volte dal procuratore di Palermo Maurizio De Lucia e dall’aggiunto Paolo Guido, ha ricordato che se non fosse stato per il tumore al colon non sarebbe stato catturato. Il boss 61enne, infatti, nel 2020 era stato colpito dal cancro: la malattia lo aveva costretto a prendere dei rischi rispetto a una latitanza perfetta. Negli ultimi anni, invece, cellulari, contatti più frequenti con l’esterno e soprattutto la necessità di ricorrere alle cure garantite dal Servizio sanitario nazionale. Il boss era andato a vivere a Campobello di Mazara, a una manciata di chilometri dalla sua Castelvetrano, protetto da una fitta rete di fiancheggiatori in un paesino di poco più di diecimila abitanti. E proprio dalla malattia i magistrati di Palermo sono partiti per scovarlo: il pizzino ritrovato nella casa della sorella Rosalia, finita anche lei in arresto per associazione mafiosa, mise gli inquirenti sulla strada giusta: il boss era malato e così è iniziata la ‘scrematura’ dei nominativi dal registro nazionale dei tumori fino a giungere a quell’Andrea Bonafede di Campobello di Mazara.

L’uomo, tenuto sotto controllo dai carabinieri del Ros e del Gis, si trovava a Campobello il 16 gennaio, quando alla clinica ‘La Maddalena’ di Palermo si presentò un Andrea Bonafede per essere sottoposto al consueto ciclo di chemioterapia. Per investigatori e inquirenti fu la scintilla che fece scattare il blitz: Messina Denaro fu catturato in una stradina laterale esterna alla clinica insieme con l’autista, Giovanni Luppino: “Io sono, Matteo Messina Denaro”, confermò ai carabinieri che lo bloccarono mettendo fine a una latitanza che durava dal 1993.


Anni trascorsi nell’ombra ma in completa libertà, sfuggendo a più riprese agli investigatori che gli hanno dato la caccia. Anni nei quali il boss di Castelvetrano è riuscito anche a curare un problema agli occhi in Spagna. Tutto si è concluso quel piovoso 16 gennaio. La chemioterapia continuò nel supercarcere de L’Aquila e poi al San Salvatore, ma nelle ultime settimane l’equipe di oncologi dell’ospedale abruzzese aveva passato la mano alla terapia del dolore: impossibile continuare la lotta contro il cancro.

Messina Denaro porta con sé i misteri delle bombe di quel terribile 1992 – quando Cosa nostra uccise Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e gli agenti di scorta – e dell’altrettanto orrendo 1993: per quelle stragi ha ricevuto condanne all’ergastolo. Risale al 1992 anche il pauroso agguato a colpi di kalashnikov contro il commissario Calogero Germanà, sul lungomare di Mazara del Vallo, tra i bagnanti increduli. Con Messina Denaro entrarono in azione anche Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano: Germanà reagì ai colpi e riuscì fortunatamente a salvarsi. Nel 1993 il boss fu tra gli organizzatori del sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino: quella vicenda è una delle poche ad averlo spinto a parlare con i giudici. Il capomafia ha fornito la sua verità: “Una cosa fatemela dire. Forse è la cosa a cui tengo di più. Io non sono un santo, ma con l’omicidio del bambino non c’entro”.

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