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La leva dei bambini senza Mondiali (e il trauma indotto dagli adulti)

Per intere generazioni i Mondiali sono stati un appuntamento fisso e una fabbrica di ricordi da tramandare

Pubblicato:25-03-2022 16:09
Ultimo aggiornamento:25-03-2022 17:06

italia nazionale calcio imagoeconomica
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ROMA – “Non voglio tornare a casa”. Per un bambino che voleva risalire sulla nave dello spot delle crociere, ce ne sono migliaia che avrebbero voluto andare in Qatar. Anche in contumacia, per interposta Nazionale. Il Mondiale invernale nel deserto è invece il miraggio di una generazione intera. Quella a cui mancherà l’esperienza da tramandare ai nipoti, il pallone cemento (disarmante) del Paese per un mese scarso, ogni quattro anni. La leva dei nati dal 2010 in poi ha già nostalgia d’un evento che non vivrà, gli manca e nemmeno lo sa.

A molti, i più grandicelli e (s)fortunati, resterà impresso nel subconscio il morso di Suarez a Chiellini, l’Uruguay. L’ennesimo avversario da usare come metonimia della sconfitta: come la Corea, come la Svezia, da ieri come la Macedonia. La più fresca e cocente. Era il 2014. Il prossimo, riforme epocali permettendo, sarà nel 2026, con un’edizione sparpagliata tra Stati Uniti, Messico e Canada. I bambini, e il loro abuso in chiave retorico-emotiva, sono la perfetta metafora del fallimento del calcio italiano. Uno stratagemma mellifluo, attaccaticcio, per suonare le corde già consumate di un sistema che si regge sul preteso “sentimento popolare”. Così l’ha chiamato Gravina. Non sanno che si perdono, sospirano i genitori mentre quelle, le creature, spolliciano sui social senza darsi troppa pena. Vivono un trauma a loro insaputa. Una lesione pretesa.

Negli editoriali arrembanti della vigilia, più d’uno era arrivato a scrivere: “Facciamolo per i bambini, ci guardano, ci giudicano”. Quando, molto più semplicemente, quelli non ci si filano per niente. Ma è vero che la contabilità del Mondiale, scandita a tappe di quattro anni in quattro anni, era un metro della nostra vita. “Nostra” di noi tanto vecchi da aver fatto i caroselli per Bearzot o Lippi. Una fabbrica di ricordi a scatto quasi fisso. Il giochetto del “dov’eri quando…”. Il Mundial dell’82, il cielo azzurro di Berlino nel 2006. Post-it della memoria. Ai figli dell’ultimo decennio restano gli Europei. Persino quelli ridotti ad una celebrazione vintage, con le “notti magiche” di Italia 90 come claim. Siamo, tutti, così proiettati al passato da non riuscire a produrre nuove gioie, se non rifacendoci alle buone emozioni di una volta. Ma la festa della scorsa estate ha poco a che fare con la ritualità cui la Nazionale ci aveva abituati. Vinti o no, gli Europei hanno un portato diverso, ridimensionato dalla geografia e della gloria. I Mondiali, con il trasporto esotico dei fusi orari, dei climi opposti, di selezioni marginalissime e colorate, dei campioni sudamericani, sono un altro pianeta. La nostra luna già conquistata. Un grosso passo per l’umanità che ancora ci presta attenzione. I bambini intanto, ripresi in lacrime da mille parenti ansiosi di postare sui social la delusione innocente di queste anime perdute, vivono l’eliminazione per induzione. I più piccoli assorbendo le maledizioni dei grandi davanti alla tv, i pre-adolescenti troppo presi dalla Playstation per accudire quel povero genitore in crisi isterica. Loro, i Mondiali se li giocano online a Fifa. Toglietegli il calcio videogiocato… Metterebbero a ferro e a fuoco la Figc. I bambini della leva senza Mondiali, dei Mondiali possono fare tranquillamente a meno. Siamo noi i bambini che non vorrebbero mai tornare a casa.


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