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Africa, clima e digitale: sfide di sviluppo che partono dalle donne

Nella terza edizione del Programma diaspore, il webinar organizzato dall'Università Luiss Guido Carli insieme con l'associazione Le Reseau

Pubblicato:20-04-2023 20:01
Ultimo aggiornamento:20-04-2023 20:02

AFRICA
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ROMA – Ci vorranno ancora 132 anni per colmare il divario di genere globale, secondo dati del World Economic Forum, ma le donne sono sempre più al centro delle agende politiche dei governi e delle istituzioni internazionali, con miglioramenti anche nei Paesi più svantaggiati. Tali progressi vanno comunque sostenuti e incrementati, rispondendo in particolare alla sfida dei cambiamenti climatici e della digitalizzazione. È il monito emerso da un webinar organizzato dall’Università Luiss Guido Carli insieme con l’associazione Le Reseau nell’ambito della terza edizione del Programma diaspore. Un appuntamento che nel titolo ‘Leadership, inclusione e diversità: contesti per una reale sostenibilità’, contiene “elementi indispensabili per l’agenda stessa del Diaspora Program”, come ha evidenziato Marco Francesco Mazzù, recruiting leader e professore di Marketing e Digital della Luiss, aprendo il seminario.

Prima di affrontare la tematica di genere, Michele Sorice, docente di Sociologia politica e della comunicazione è partito dal concetto stesso di leadership: “Come dimostrano alcuni studi- dice Sorice – spesso i ruoli dirigenziali in ambito aziendale vengono assegnati a chi ne fa richiesta e non a chi ne ha le naturali qualità e che spesso non è interessato ad assumere incarichi”. Una contraddizione che deve suggerire più in generale di “scegliere i leader dal basso. Un modello sostenibile di inclusione deve prevedere agenti di cambiamento capaci di assumersi la responsabilità del cambiamento stesso”, e ciò si raggiunge, secondo Sorice, “coinvolgendo di più la popolazione: è lì che troveremo i futuri leader”. Il nostro, però, è un mondo diseguale: il cosiddetto nord ad alto reddito corre più veloce del sud, ma non bisogna sottovalutare “l’interconnessione tra sviluppo e parità di genere”. A suggerirlo è Keita Aida M’bo, ex ministra dell’Ambiente, dell’igiene e dello sviluppo sostenibile del Mali. “Il mio Paese- evidenzia- è al 182esimo posto su 189 dell’Indice di sviluppo umano globale. Cionondimeno dal 2012 ha varato leggi, programmi e gruppi di lavoro volti a favorire l’empowerment e la scolarizzazione delle donne”, che “costituiscono la maggioranza della popolazione” e sono la principale componente “a utilizzare le risorse naturali, minacciate dai cambiamenti climatici”.

L’80% della forza lavoro del Mali è infatti impegnata in agricoltura, allevamento e pesca, di cui l’80% è a sua volta composta da donne. Includerle nei processi decisionali significa quindi, secondo M’bo, “trovare risposte al clima che cambia, di cui le donne sono le prime a soffrire gli effetti”. Il Mali è parte della regione del Sahel e con Burkina Faso, Niger, Mauritania e Senegal, condivide alcune caratteristiche: “Tanto sole e grandi spazi, notevoli risorse idriche e minerarie – come petrolio, oro, uranio o litio – una popolazione estremamente giovane”, sottolinea l’economista Keita Mariam Touré, membro della Coalizione maliana per il genere, la sicurezza e il cambiamento climatico. L’esperta evidenzia anche tratti negativi: “Questi Paesi non godono dei proventi delle riserve naturali e pagano il costo dei cambiamenti climatici. In Senegal a esempio in alcune zone bisogna scavare oltre i 50 metri per creare un pozzo, perché le falde si stanno prosciugando”.


AFRICAN WOMEN IN EUROPE

La chiave per un futuro prospero per Touré diventa allora “trasformare i rifiuti in gas o elettricità”, un processo “già in atto in alcuni Paesi del Sahel, che non solo contiene l’innalzamento delle temperature ma, tramite i siti per la produzione di energia, consente di proteggere e rigenerare foreste e biodiversità, contendendo la desertificazione. Dobbiamo creare valore aggiunto partendo da quello che abbiamo”.
Un suggerimento che raccoglie Joy Zenz, che nel 2008 ha fondato la piattaforma ‘African Women in Europe’ (Awe): una realtà che oggi mette in contatto 6mila imprenditrici di origini africane in Europa e nel resto del mondo con imprese e investitori. “Sostenere le donne significa sostenere lo sviluppo della comunità” dice Zenz, nata in Kenya e oggi residente in Germania. “Awe è presente in 20 Paesi e lavoriamo con le donne soprattutto in ambito digitale, perché è importante che siano connesse e quindi raggiungibili”. Ciò permette loro di “entrare nel commercio e in particolare nel settore manifatturiero”.

LE IMPRESE FEMMINILI

A livello globale, continua la dirigente, i dati rivelano che il 20% delle imprese è a guida femminile, mentre “una ricerca ha rivelato che metà delle donne africane intervistate vuole avviare un’impresa nei prossimi tre anni. Se si sfruttasse questa volontà, si supererebbe la quota delle europee. Dobbiamo agire da ponte tra i due continenti e investire nel mercato africano d nelle comunità straniere, superando ostacoli come la corruzione”. La piattaforma ha già “mobilitato oltre 4mila imprenditrici nell’ambito dell’Area di libero scambio africana (Afcfta) e accordato 20 grant per l’avvio di attività imprenditoriali”. A invocare ponti “fisici e di relazioni” tra l’Africa e l’Europa è Fabrizio Lobasso, vicedirettore per l’Africa sub-sahariana presso il ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale: “Servono politiche centrate sull’essere umano”, il suo appello, “e iniziative come questa- conferma il dirigente- vanno nella direzione di quell’Italia che, come le attività della Farnesina dimostrano, vuole esserci”.

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