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Chi è Max Verstappen, campione del mondo di F1 per la seconda volta

Dal quad in giardino a quattro anni con il padre pilota, all'esordio in Formula 1 a 17 anni fino ai mondiali vinti

Pubblicato:09-10-2022 12:36
Ultimo aggiornamento:09-10-2022 13:24

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Crediti Clive Rose: Getty Images/ Red Bull Content Pool

ROMA – Dalle acque del Giappone spunta Verstappen, come un Godzilla che però tutti s’aspettavano quasi scocciati: il campione del mondo che correva solo per l’ufficialità aritmetica da troppe gare ha chiuso i conti con un ricalcolo astruso della Fia. Il “mostro” così anabolizzato dal suo stesso dominio da disinnescare tutto lo show concepito dalla Formula 1 a botte di regolamenti e cavilli. “Max Power” con tutti i suoi nomignoli – quello di Homer Simpson sarebbe il più azzeccato – per la seconda volta padrone del Circus. Stavolta in fuga, accorciando quel calendario infinito apparecchiato per lo spettacolo di tutto un anno. Mica come nel 2021, con quell’ultimo giro dell’ultimo Gp, Hamilton superato a pochi metri dal suo ottavo titolo.

Stavolta sorride, Verstappen, quando gli comunicano che ha vinto il Mondiale e lui manco lo sa. La Fia lo premia alla Var, interpretando tutto il regolamento a suo favore: basta attese, chiudiamola qui. Stavolta il rivale – Leclerc – gli è amico, e s’è tirato fuori fin troppo presto dai giochi con i tentennamenti della Ferrari, prima che la Federazione calasse il jolly del ricalcolo dei resti in classifica.


È il Mondiale della gioia, per l’olandese. Con una sceneggiatura increspata dalle mancanze burocratiche della Fia, e la competizione in pista riservata alla prima parte di stagione. Poi una lunga discesa verso il secondo titolo. La matematica a chiudere il conto, in attesa che arrivino anche i certificati di “conformità finanziaria” a vidimare tutto. Con un sistema di campionato sub iudice cui toccherà abituarsi anche per il futuro. Christian Horner ripete un refrain per definire il suo campione alla stampa che s’ostina a caricargli addosso colori che non ha: “Max vuole solo guidare una macchina veloce, poi tornare a casa e mettersi a giocare alla Playstation”. “Ah, ed è bravissimo con bambini”. Ecco. “Spesso le personalità cambiano, diventano dive. Max è fondamentalmente lo stesso ragazzo che si è presentato sei anni fa, non credo che cambierà mai. È a suo agio con se stesso. Non brama l’adulazione, ama le sue corse. Fondamentalmente è solo un pilota”.

Con il bis Mondiale Verstappen ora fa il campione di mestiere. S’è preso il suo tempo, confermandosi. Con la stessa strafottenza composta che aveva a 17 anni e 3 giorni, la sua prima volta in Formula 1: prove libere del Gran Premio del Giappone 2014, guarda un po’. Dalla Formula 3 senza gavetta. Dalla Toro Rosso alla Red Bull alla quinta gara del 2016, dalla squadra satellite alla casa madre. Un sorpasso di vita. Ha vinto il suo primo Gran Premio in Red Bull a 18 anni e 228 giorni, stracciando il precedente record di 21 anni e 73 giorni di Vettel a Monza 2008 con la Toro Rosso. Medesima famiglia di precocità. Il papà gli faceva capottare quad in giardino a quattro anni, e ogni venerdì, all’uscita di scuola, lo passava a prendere col furgone: 1.200 km per andare a correre in Italia sabato e domenica, poi altri 1.200 per riportarlo direttamente a scuola il lunedì mattina. Così è stato allevato Max. Fosse tennis sarebbe un Agassi, forse.

Max Verstappen è notoriamente un pilota figlio di piloti, “d’arte” come si dice per sottolinearne la carriera da predestinato e/o raccomandato. Di papà Jos, ex pilota di Formula 1, e di mamma Sophie, kartista. Ma quella è roba vecchia, buona per le agiografie. Ogni volta che affonda una staccata Verstappen non lascia passare niente, le insinuazioni come gli avversari. Si diceva nell’ambiente che il padre avesse preteso e ottenuto dalla Red Bull un contratto ‘diverso’. Quando fu intimato all’olandese di far passare Sainz (giovane alla pari, in teoria) a Singapore, Max se ne esce con un secco “No!”. Il team principal Franz Tost lo difese e la cosa finì lì.

Il corpo-a-corpo era la sua cifra, in attacco e in difesa. Citofonare Hamilton per info a riguardo. Difficile che ne perda uno, e se succede restano sull’asfalto i segni faticosi della manovra al limite regolamentare e tecnico, che l’ex Martin Brundle definisce “da formule minori”. E la sorta di ‘impunità’ che teoricamente l’ha tenuto al caldo, sotto una palla di vetro, sarebbe poi il motore della ricerca del limite che l’ha trascinato fino a battere l’imbattibile inglese lo scorso anno. Ora ci ha aggiunto un passo superiore, martellante. Una maturità da metronomo. La sua conduzione di gara da “saloon” gli veniva rinfacciata da sempre, e l’anno scorso s’era sublimata nelle sportellate con Hamilton, un altro a cui fino ad un attimo era consentito più o meno tutto. E’ questa d’altra parte la grammatica della nuova popolarità della F1: parolacce e sgarbi, ricorsi e carte più o meno false; ma soprattutto la rissa, il duello. Netflix ha solo riacceso la miccia machista del F1 “con le palle”, di cui Verstappen è uomo-immagine. Sempre trasversale tra supponenza e talento. Paradossalmente è proprio l’olandese che rischia di rovinare questa drammaturgia: tanti sorpassi, sì; ma se alla fine vince sempre lo stesso che sfizio c’è? Dopo il fondo piatto cos’altro dovranno inventarsi per rimescolare le carte da gioco? Verstappen è uno di quelli che fa branding, polarizza, divide e appassiona. Pur restando glaciale. L’anno scorso vinse rimesso in gioco da una safety car a cinque giri dalla fine di una gara decisiva. Da un solo ultimo giro, di dadi. Quest’anno ha stravinto per continuità, in crociera. Lasciando a Leclerc le effimere pole del sabato, per poi ruminarlo in gara alla domenica. La festa è appena cominciata, ma era già finita. Godzilla è arrivato, eccolo: un paio di selfie, un autografo. Un mostro senza antagonisti dopo un po’ annoia. Meno male che c’è la Fia.

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