Un terzo delle ivg nel paese e' rappresentato da donne straniere
Roma, 4 feb. - Quarantadue anni fa veniva regolamentata dalla legge, la numero 194, l'Interruzione volontaria di gravidanza (Ivg). Grazie a questa norma una donna per motivi di salute, economici, sociali o familiari puo' richiedere di abortire entro i primi 90 giorni di gestazione (cioe' 12 settimane e 6 giorni). Oltre questo termine, l'aborto volontario e' ammesso solo quando la gravidanza o il parto comportano un grave pericolo per la vita della donna, o sono accertate gravi malformazioni del nascituro che possano determinare un grave pericolo per la salute fisica o psichica della madre.
Ma quale sono i numeri dell'aborto in Italia? Ed esiste un identikit preciso delle donne che ricorrono a questa procedura? E quanto ne sappiamo in fatto di contraccezione nel nostro Paese? A rispondere all'agenzia di stampa Dire e' Angela Spinelli, direttore del Centro Nazionale per la Prevenzione delle Malattie e la Promozione della Salute dell'Istituto Superiore di Sanita': - Quali sono i numeri dell'Interruzione volontaria di gravidanza in Italia? Le donne che accedono alla procedure hanno delle caratteristiche precise? "Attualmente si contano circa 80mila interventi di Ivg all'anno in una fascia d'eta' compresa tra i 15 e i 49 anni. L'eta' media si aggira tra i 20 e i 35 anni d'eta' e questo evidenzia che non si registrano alti tassi di abortivita' tra le giovanissime. La fascia dove l'incidenza e' maggiore, nel segmento intermedio, e' quella con una crescente attivita' sessuale".
- Che percentuali di Ivg si registrano tra le straniere? "Le straniere, presenti nel nostro Paese dagli anni Novanta in poi, rappresentano un terzo del totale degli aborti praticati annualmente in Italia. Nelle regioni dove la presenza di straniere e' maggiore si registra il loro maggior numero di interruzioni volontarie di gravidanza. L'altro dato che emerge e' che l'eta' media, all'epoca delle procedure, e' piu' bassa rispetto alle donne italiane che si sottopongono a Ivg".
Continua l'intervista ad Angela Spinelli, direttore del Centro Nazionale per la Prevenzione delle Malattie e la Promozione della Salute dell'Istituto Superiore di Sanita': - L'Iss ha istituito un sistema di sorveglianza sull'Ivg. Quali sono le finalita' e su quali criteri si basa? "Dal 1978 la legge italiana garantisce l'interruzione volontaria di gravidanza e per questo l'Iss dal 1980, in collaborazione con il ministero della Salute e successivamente anche con l'Istat, ha istituito un sistema di sorveglianza che si basa sui dati che vengono raccolti attraverso le strutture dove l'interruzione avviene, le regioni poi raccolgono il dato a livello locale per inviarlo a livello centrale all'Iss. L'Istituto Superiore di Sanita', a questo punto, controlla la qualita' del dato per avere una fotografia reale della situazione. In piu' il sistema di sorveglianza dell'Ivg negli anni ha esaminato tutta una serie di tematiche: dall'aborto clandestino all'aborto ripetuto, dalle caratteristiche delle donne che interrompono la gravidanza all'eta' di chi si sottopone a Ivg, nonche' il profilo sociale di riferimento. Contrariamente a quanto comunemente si pensa, le donne che abortiscono non sono tanto le lavoratrici quanto piuttosto le casalinghe, o comunque donne con un titolo di studio basso. Il sistema di sorveglianza e' riuscito a stimolare il dibattito, a destare le coscienze ed e' stato utile per attivare processi atti ad evitare queste interruzioni di gravidanza".
- Si registrano piu' richieste tramite i consultori o gli ospedali? "Attualmente il consultorio e' la struttura di riferimento per le donne anche perche' e' il luogo dove viene rilasciato alla paziente il documento da esibire in ospedale per poter fare l'intervento soprattutto se urgente. Inoltre fare del consultorio un punto di riferimento per le pazienti e' quello che la legge auspicava. Anche il ministero della Salute e l'Iss ribadiscono l'importanza del consultorio familiare che puo' essere il luogo dove la coppia torna per discutere la contraccezione ed evitare interruzioni eventuali future".
Per quanti si ritengono ansiosi dagli Usa arriva un forte monito: rilassarsi puo' innescare l'ansia. È questa la news che piomba nel mondo della psicologia rimanendo tuttora un ambito poco indagato dal mondo accademico e poco conosciuto al livello sociale. Il fenomeno prende il nome di 'ansia indotta da rilassamento' (RIA), che dopo alcune menzioni sporadiche nella letteratura degli anni 80 e' caduto nel dimenticatoio per essere ripreso solo negli anni 2000.
È il 2012, infatti, quando Cristina Luberto, ricercatrice presso l'University of Cincinnati, conclude la sua ricerca in ambito RIA e sul The Atlantic illustra: "Circa il 15% delle persone hanno sperimentato l'ansia indotta da rilassamento".
Non riuscire a rilassarsi in alcun modo, come accade per l'ansia cronica grave, o utilizzare strumenti e metodi differenti dai piu' diffusi per rilassarsi, non significa aver sperimentato la RIA. Anzitutto, quando comunemente facciamo riferimento al relax spesso non sappiamo che questo riguarda una specifica sezione del nostro sistema nervoso che e' definita sistema parasimpatico ed e' responsabile, secondo i principali manuali di anatomia come 'Anatomia del Gray', di quelle reazioni corporee involontarie, che rispondono a situazioni di 'riposo' e 'recupero di energie', bilanciando le azioni della sezione simpatica.
L'ansia indotta da rilassamento, infatti, si sperimenta, secondo quanto dichiarato da Luberto: "Quando si entra in uno stato parasimpatico, di relax, subito seguito da un'impennata del battito cardiaco, la respirazione che diventa meno profonda, e si sperimenta una crescita dell'ansia".
Le piu' recenti novita' sulla RIA arrivano poi da uno studio recentissimo, annata 2019 del 'Journal of Affective Disorders', a firma Hanjoo Kim e Michelle G. Newman che cercano di dimostrare come le persone ansiose finiscono per sperimentare l'ansia indotta da rilassamento perche' temono che dopo essersi rilassati, questa tornera' in maniera peggiore.
"Pensano che la preoccupazione li aiuti ad affrontare lo stato d'ansia, mentre il rilassamento no. Tuttavia, in realta', e' piu' sano lasciarsi andare e permettersi di sperimentare cambiamenti emotivi negativi", spiega Kim al PsyPost.
Le evidenze della ricerca confermano poi un altro dato: "Il rilassamento ha indotto ansia nei pazienti con disturbo di ansia generalizzato e con disturbo depressivo maggiore", scrivono Kim e Newman.
Luberto, inoltre, nei suoi studi ha disegnato i confini di 'un'indice di sensibilita' al rilassamento' (RSI), che tenta di circoscrivere i casi di RIA attraverso un'autovalutazione in 21 domande, a cui i pazienti possono rispondere in base a una scala di aderenza da 1 a 5. Le risposte, illustra l'Atlantic, possono fornire indicazioni circa le possibilita' di trattamento.
"Il riposo e' spesso prescritto in situazioni di ansia. In questo caso non puo' esserlo" spiega Luberto. Le persone con RIA possono beneficiare, invece, di trattamenti "come il far fronte alle proprie paure in un contesto terapeutico" o con la partecipazione "a sessioni di relax controllato e supervisionato", si legge nel sito web della rivista statunitense.
L'ansia da rilassamento non e' catalogata come un disturbo di salute mentale, piuttosto, questa viene considerata un sintomo. "Sarebbe importante- conclude Kim- sviluppare e convalidare un metodo di trattamento manuale, in modo che i medici possano integrarlo facilmente nella loro pratica".
(Red/ Dire)