La diagnosi è conoscenza, un 'tormento', che deve essere sempre al servizio del trattamento
Intervista a Vittorio Lingiardi, coordinatore scientifico internazionale, con Nancy McWilliams, del PDM-2: "La ‘bontàÂ’ di una diagnosi sta nelle capacità del clinico che la usa"
(DIRE - Notiziario settimanale Psicologia) Roma, 24 gen. - Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicoanalista, e' professore ordinario di Psicologia dinamica alla Sapienza Universita' di Roma, dove dal 2006 al 2013 ha diretto la Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica. Con Nancy McWilliams, docente di Psicologia alla Rutgers University, e' coordinatore scientifico internazionale della nuova edizione del Manuale Diagnostico Psicodinamico (PDM-2), che uscira' a giugno negli Stati Uniti (Guilford Press) e a dicembre in Italia (Raffaello Cortina Editore).
Il 28 gennaio Lingiardi partecipera' alla 'Giornata nazionale di studio' promossa dalla Societa' psicoanalitica italiana (SPI) sul tema ''They are people'. Il contributo della Psicoanalisi alla psicopatologia e alla diagnosi nell'infanzia, nell'adolescenza e nella vita adulta', in via Panama 48 a Roma, dalle 9 alle 18. L'Agenzia Dire lo ha intervistato sul tema del suo intervento: 'Fare diagnosi oggi: SWAP-200, PDM-2, DSM-5'.
- Professore, esiste un problema di eccesso diagnosi in Italia? In caso affermativo, che rischi corriamo e come possiamo limitarli? 'Dipende da cosa intendiamo per diagnosi. Se per diagnosi intendiamo il frettoloso etichettamento di una condizione psicopatologica o la meccanica applicazione di categorie diagnostiche di successo, magari dopo un colloquio con un paziente durato meno di mezz'ora o la somministrazione di un paio di self-report, sicuramente siamo di fronte a un problema di 'diagnostica selvaggia''. Tra le 'diagnostiche selvagge' vanno ricordate anche 'le autodiagnosi, quelle che il paziente si assegna dopo aver cercato i suoi 'sintomi' online', spiega Lingiardi.
'Venendo al tema dell'iperdiagnosticismo psichiatrico, e' stato uno psichiatra americano a sollevarlo recentemente: Allen Frances (in Italia per tenere due conferenze, a Milano e a Roma, il 27 e 28 gennaio, dove parleremo proprio di diagnosi). I titoli dei suoi libri sono eloquenti: 'La diagnosi in psichiatria.
Ripensare il DSM-5' (Cortina) e 'Non curare chi e' normale' (Boringhieri). Attenzione pero' a non cavalcare il lavoro di Frances in funzione riduttivamente 'antidiagnostica'. La facilita' con cui si attribuiscono diagnosi a condizioni che patologiche non sono (soprattutto nel bambino e nell'anziano) va criticata, ma la diagnosi rimane un momento fondamentale della cura. Il modo di limitare i rischi della diagnostica (selvaggia o ipermedicalizzata che sia)- prosegue lo psichiatra- e' quello di mantenere al centro dell'indagine il colloquio con il paziente, l'empatia e la curiosita' nei suoi confronti, l'anamnesi e la contestualizzazione dei sintomi. Il clinico, psichiatra o psicologo clinico, deve avere un'ampia cultura della diagnosi, capace di tenerne insieme gli aspetti relazionali e quelli dell'indagine strumentale e dell'approfondimento medico-biologico. Soprattutto non deve dimenticare che una buona diagnosi e' sempre al servizio del trattamento. La bonta' di una diagnosi sta nella sua traducibilita' clinica: come sintesi dei problemi e delle risorse di un paziente e come guida per individuare l'approccio terapeutico piu' idoneo. Se isoliamo l'etichetta diagnostica dagli obiettivi potenziali che essa implica, rischiamo di fare come lo sciocco che, quando il saggio indica la luna, guarda il dito'.
- Cosa vuol dire fare diagnosi oggi e quali sono le sfide della psicoanalisi in questo ambito? 'Fare diagnosi significa prima di tutto accettare, come diceva il grande psicopatologo Karl Jaspers, che 'tutti i sistemi diagnostici devono restare un 'tormento'. L'idea che per il clinico la diagnosi debba essere un 'tormento' mi ha insegnato molto. Essa e', infatti, sempre abitata da una tensione. Una tensione che cerca una soluzione capace di conciliare la necessita' di ricondurre il paziente a una categoria piu' generale e al tempo stesso l'unicita' di quel soggetto. Quando parlo di un paziente con una personalita' narcisistica o ossessiva o paranoide, tanto per nominare delle diagnosi, sto inevitabilmente parlando della sua appartenenza a una comunita' 'ideale' di sintomi e strutture; una gestalt diagnostica con caratteristiche descrivibili e condivise dalla comunita' scientifica. Al tempo stesso- continua Lingiardi- devo considerare il modo unico che ha quella persona di appartenere ai sintomi e alle strutture del narcisismo, della paranoia, dell'ossessivita', ecc. È quello che nel mio lavoro clinico, o quando insegno e faccio supervisioni, cerco di fare sempre: mantenere una visione binoculare in grado di tenere insieme 'l'etichetta diagnostica' e la 'formulazione individuale del caso''.
Quanto agli psicoanalisti, 'in molti, per molto tempo, hanno considerato la 'diagnosi' una 'brutta parola': troppo oggettivante, troppo legata al sintomo e poco alla persona.
Eppure la maggior parte delle terminologie diagnostiche provengono dalla psicoanalisi! È importante che oggi gli psicoanalisti si confrontino con una nuova cultura della diagnosi- sottolinea il professore- ricordando che diagnosi e' conoscenza. Conoscenza del paziente, dei suoi meccanismi di difesa, dei suoi tratti di personalita' (compresi gli aspetti temperamentali), delle sue capacita' cognitive e metacognitive, dei suoi stili di attaccamento. E delle sue risorse! È vero che la diagnosi si occupa del 'patologico', ma come possiamo occuparci del trattamento se non 'diagnostichiamo' anche le risorse, i punti di forza dell'individuo, le sue capacita' di adattamento? Perche' un sistema diagnostico sia utile al clinico- chiosa Lingiardi-, occorre saper leggere la psicopatologia nel contesto della personalita'; considerare il sintomo insieme al funzionamento mentale complessivo; saper cogliere, come ho detto, le risorse. E collocare la diagnosi nel ciclo di vita (prima infanzia, infanzia, adolescenza, eta' adulta, eta' anziana); considerare gli elementi relazionali dell'atto diagnostico; considerare l'esperienza soggettiva che il paziente ha dei suoi sintomi; valorizzare il ruolo della soggettivita' disciplinata del clinico nella formulazione diagnostica; e promuovere la formazione clinica'.
Con Nancy McWilliams 'stiamo organizzando un convegno che si terra' a New York il prossimo giugno- fa sapere il professore de La Sapienza-. Presenteremo la nuova edizione dello Psychodynamic Diagnostic Manual che, sostenuto dalle piu' importanti associazioni psicoanalitiche internazionali, si propone di fare suoi i requisiti sopra descritti. Sara' proprio uno psicoanalista a tenere la lectio magistralis, un uomo che ha dato moltissimo proprio nel campo della diagnosi: Otto Kernberg. Egli insegna che, nell'incontro con il paziente, una delle prime cose da fare e' capire il livello di organizzazione della sua personalita' secondo la nota tripartizione (pensabile anche come continuum) 'nevrotico-borderline-psicotico'. Una volta riconosciuto il livello di organizzazione della personalita', Kernberg ci invita a cogliere il funzionamento di tre dimensioni fondamentali: l'identita', i meccanismi di difesa, l'esame di realta'. Non e' diagnosi psicoanalitica, questa?'.
Lingiardi ricorda che questo e' 'un momento storico molto interessante per chi si occupa di diagnosi. All'egemonia del DSM (Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mental) - che peraltro considero uno strumento importante che ogni clinico dovrebbe conoscere al di la' degli sterili approcci tipo 'pro' o 'contro' il DSM - si e' affiancata una diagnostica psicodinamica rappresentata dal gia' citato PDM-2 e dalla Shedler-Westen Assessment Procedure (SWAP-200), uno strumento per valutare la personalita' e le sue caratteristiche sane e patologiche. Sono stati valorizzati aspetti della dimensione diagnostica a lungo trascurati- spiega lo psicoanalista-, per esempio il ruolo delle risposte emotive del terapeuta (noia, impotenza, protezione, ostilita', ecc.) di fronte a diversi tipi di pazienti. Con buona pace degli 'anti-diagnosti', la comunita' psicodinamica si e' impegnata per restituire alla dia-gnosi la sua dimensione conoscitiva e quindi de-burocratizzarla'.
- Quali sono le differenze tra i tre sistemi di valutazione SWAP-200, PDM-2 e DSM5? Poiche' ne parlera' al convegno della SPI, potrebbe anticiparci qualcosa? 'Come tutti sanno, il DSM dell'American Psychiatric Association, giunto alla quinta edizione (2013) e' il sistema diagnostico piu' diffuso a livello internazionale insieme all'ICD-10 (ormai prossimo alla sua undicesima revisione). Propone una diagnosi di tipo descrittivo. Come tutte le nosografie 'symptom-behavior oriented' d'impostazione medica, questo sistema di categorizzazione dei disturbi mentali e' basato sull'identificazione di segni e sintomi chiaramente osservabili e tendenzialmente riferiti dal paziente. Ogni quadro psicopatologico e' descritto da un pool di criteri della medesima rilevanza diagnostica; per assegnare uno specifico disturbo- prosegue lo studioso- e' necessario che sia soddisfatto un certo numero-soglia di criteri (in termini dicotomici di presenza/assenza) stabilito per convenzione. Il modello DSM pertanto non tiene conto ne' di specifiche teorie del funzionamento mentale, ne' dell'effetto di rappresentazioni e processi impliciti/inconsci alla base della sintomatologia manifesta. Il PDM (Manuale Diagnostico Psicodinamico), in particolare la seconda edizione che sto coordinando con Nancy McWilliams, e' un sistema di classificazione dei disturbi mentali fondato su un modello psicodinamico e sostenuto dai dati della ricerca empirica. Potremmo dire che il PDM-2 si rivolge all'intera gamma del funzionamento: personalita', capacita' mentali, sintomatologia. Vuole essere una 'tassonomia di individui' piuttosto che una 'tassonomia di malattie'. Cerca di descrivere che cosa una persona ha senza dimenticare chi e' quella persona. Malgrado le indiscutibili distanze, sarebbe scorretto pensare che il PDM si pone in antitesi al DSM. Lo collocherei in una dimensione di complementarieta' critica'.
Due parole, infine, Lingiardi le dedica sulla SWAP-200 (Shedler-Westen Assesment Procedure): 'Non e' un manuale diagnostico come il DSM e il PDM. Si tratta di una procedura di valutazione dei tratti e degli stili, sani e patologici, della personalita'. È uno strumento clinician-report (cioe' compilato dal clinico, non dal paziente) che permette di formulare un profilo articolato e complesso del funzionamento del paziente organizzando in una forma sistematica e rigorosa metodologicamente le informazioni tratte dall'esperienza clinica e dal colloquio'. C'e' un legame 'stretto tra SWAP e PDM, infatti alcune sezioni del PDM-2 sono state strutturate a partire da ricerche condotte con la SWAP. Mi riferisco in particolare agli Assi P per adulti, adolescenti e anziani che valutano i pattern di personalita''. Un'ultima osservazione sui sistemi diagnostici: 'Una volta data per scontata la loro qualita' scientifica e la loro affidabilita' clinica, la loro 'bonta'' sta nelle capacita' del clinico che li usa. Se ho una forchetta e la uso per raccogliere il brodo, la utilizzo male. Non e' colpa della forchetta. Non prendiamocela con la diagnosi e con i suoi strumenti- conclude lo psichiatra- ma con chi ne fa un cattivo uso!'.
(Wel/ Dire)
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