(DIRE - Notiziario Sanità) Roma, 25 nov. - La musicoterapia è una passeggiata in alta quota. "Incontrare un paziente oltre la semanticità delle parole e oltre la capacità narrativa di entrambi rimanda all'esperienza di camminare in vetta, su un crinale. I passi devono essere certi e misurati, la discesa eventuale nelle profondità delle gole deve essere saldamente ancorata alla possibilità del ritorno in quota, pena la caduta e lo smarrimento. Lo scenario alla comprensione dello sguardo è vasto, sconfinato e bellissimo. Accade questo in una comunicazione corporo-sonoro-musicale, in cui i contenuti della profondità e complessità corpo/mente sono più facilmente accessibili, sicuramente meno difesi e da trattare, clinicamente parlando, forse con maggior attenzione e competenza".
Un'immagine nitida, quella offerta da Iolanda Benedetti, musicoterapeuta dell'Istituto di Ortofonologia (IdO) di Roma, maturata dopo oltre dieci anni di esperienza clinica come musicista/musicoterapeuta.
"Esistono numerose definizioni del termine 'Musicoterapia' che ne definiscono strumenti e tecniche operative, e tra queste solo alcune sono da ritenersi 'ufficiali' e si riferiscono ai modelli metodologici riconosciuti al IX Congresso Mondiale della World Federation of MusicTherapy, tenutosi a Washington nel 1999. Gli approcci sono di due tipi: musicoterapia attiva e musicoterapia recettiva. Per formazione la definizione a me più vicina è quella del professor Rolando Omar Benenzon (1969), della quale mi piace sottolineare il riferimento a 'disciplina paramedica', e l'obiettivo la socializzazione. Siamo all'interno di una musicoterapia attiva, nella quale terapeuta e paziente producono materiale sonoro-musicale, nel tentativo di aprire canali comunicativi e stabilire una comunicazione vera e propria, anche se non verbale".
- In presenza di quali disturbi viene applicata? "Si parla di interventi riabilitativi e terapeutici- risponde alla DIRE- intendendo tecniche musicoterapiche mirate alla riacquisizione di capacità compromesse da traumi o malattie nel primo caso, e all'armonizzazione degli aspetti della personalità nel secondo. Le applicazioni, quindi, sono davvero varie, e vanno da situazioni di deficit neurologici o fisici, a disturbi iperansioni, fino al trattamento delle psicosi. Nell'età evolutiva, poi, vengono trattati in setting musicoterapici anche i disturbi specifici degli apprendimenti, attraverso interventi di tipo psico-pedagogico. Credo che abbia senz'altro un valore storicamente attuale sottolineare che si realizzano numerosi progetti, sia nelle scuole che in centri di accoglienza o di recupero, per l'integrazione proprio attraverso la musica e il suono".
- Sono previste fasce di età specifiche? "Esistono colleghi che lavorano con donne in attesa di un bambino, e colleghi che lavorano con anziani affetti da malattie degenerative. E' chiaro, quindi, che non esiste una fascia di età che determina l'utenza, ma direi piuttosto che è la formazione specifica del musicoterapeuta e la sua capacità di 'sentire' come e di cosa prendersi cura che definiscono il campo di applicazione, anche rispetto alle varie fasi della vita, con le problematiche ad esse connesse".
- Quali sono gli obiettivi e la durata del trattamento? "Come in qualsiasi processo di cura, direi che il trattamento non può essere né breve né temporaneo. Stimolare e potenziare abilità residue o compromesse, così come tradurre in paradigmi non verbali contenuti emozionali e dinamiche interpersonali alterate da nodi conflittuali consci o inconsci sono intenzioni terapeutiche che hanno bisogno evidentemente di tempo, costanza e pazienza per realizzare obiettivi a breve medio e lungo termine. Il rischio in un setting musicoterapico è quello di considerare esito positivo esclusivamente il fatto che il paziente prima o poi, bene o male, faccia, cioè produca qualcosa- aggiunge la musicista- o piuttosto ponga attenzione a quanto da noi prodotto. In realtà l'obiettivo che sostiene qualsiasi altro esito positivo è legato alla capacità di realizzare una forma di empatia tra i due, esperienza che richiede appunto attenzione, costanza e tempo".
- I bambini con autismo si attivano di fronte a uno stimolo sonoro timbricamente caratterizzato? "Proprio per le caratteristiche di 'colore', il suono timbrico può attivare nel bambino con autismo, diversamente da quanto accade nello sviluppo tipico, un atteggiamento difensivo. Una ricerca dell'IdO su 53 bambini autistici ha infatti evidenziato un maggior numero di attivazioni nei bambini in presenza di suoni timbricamente caratterizzati. Laddove la variabile osservata era determinata da connotazione affettiva, hanno risposto in modo piu' ricco quei bambini che presentavano una sintomatologia lieve- conclude- che si sono attivati all'ascolto della voce materna e non all'ascolto della voce di un estraneo".
(Wel/ Dire)