(DIRE - Notiziario Sanita') Roma, 13 set. - I disturbi alimentari
cambiano pelle e forma, ma non muta la necessita', oggi piu' di
prima, di trattarli in maniera adeguata. E per farlo servono le
strutture.
Il censimento condotto dalla regione Umbria in collaborazione con
il ministero della Salute ha rilevato 165 strutture pubbliche o
accreditate, ricavandone una mappa dettagliata, ora disponibile
sul sito www.disturbialimentarionline.it. In totale sono circa 16
mila i pazienti in trattamento presso questi centri. Ma la
realta' dell'offerta sanitaria e' purtroppo carente.
Nel 1998 una commissione ad hoc istituita dal ministero della
Salute aveva ipotizzato un modello organizzativo per il
trattamento dei disturbi. Si prevedeva l'istituzione di una rete
di assistenza articolata su 4 livelli: unita' ambulatoriali;
unita' semiresidenziali e di day hospital; servizi di degenza
residenziale riabilitativa (soggiorno medio di tre mesi); unita'
di ricovero ospedaliero attrezzata per il trattamento della fase
acuta della patologia (il cosiddetto "salvavita" ).
Questa rete, se completa, doveva fornire un'assistenza capillare
e ordinata, con approccio multidisciplinare (nelle strutture era
prevista la presenza di medici, nutrizionisti, psicologi,
psichiatri). Il criterio era quello di elaborare un percorso su
misura per il paziente, senza necessariamente costringerlo al
ricovero ospedaliero (piu' gravoso sia per la persona che per i
bilanci del Servizio sanitario nazionale).
Ma in Italia solo 10 regioni e la provincia di Bolzano hanno sul
loro territorio tutti e 4 i livelli, mentre in Calabria, Molise e
provincia di Trento ce n'e'solo uno. Il risultato e' semplice: ci
sono circa 8 mila donne tra i 14 e i 25 anni che si stima siano
affette dalla sola anoressia, i posti residenziali disponibili
sono solo 250 su tutto il territorio nazionale. Inoltre, sulle
165 strutture censite, le residenze contano solo per il 7%,
mentre strutture di ricovero e day hospital coprono il 45%. Meno
della meta' delle strutture e' un ambulatorio. Ma gli studi
confermano che fino al 70% dei pazienti potrebbe trovare adeguata
risposta sanitaria fermandosi al livello ambulatoriale. C'e'
insomma, una carenza nei livelli di entrata: un solo ambulatorio
in tutto il Molise ed uno per l'intera Sardegna. Nelle stime
degli esperti del ministero, ciascuna Asl dovrebbe avere il suo
ambulatorio (e invece solo la meta' di esse ne ha uno sul proprio
territorio), e ciascuna regione dovrebbe avere il livello
residenziale.
La realta' e' dunque quella di una mobilita' passiva dei
pazienti molto alta (circa un terzo di essi viene da altra Asl o
altra regione rispetto a quella dove si trova la struttura), che
significa maggiori costi per il Servizio sanitario, per le
persone stesse. E soprattutto implica un certo livello di
deterrenza e di sfiducia. Dove il cittadino non ha possibilita'
di essere curato in strutture pubbliche, e' costretto a
rivolgersi al settore privato.
(Wel/ Dire)