Di Renzo: La diagnosi è primo e più importante atto terapeutico
(DIRE - Notiziario Psicologia) Roma, 20 ott. - "Rispettare le teorie nel loro spessore significa avere delle conoscenze che ci permettono di adottare un approccio alla psicopatologia più complesso, che sia una metodologia di approccio al bambino capace di ridare al clinico la possibilità di integrare i diversi elementi con rigore scientifico. Dobbiamo sforzarci di capire che il bambino ha diritto ad una sua molteplicità per trovare strategie terapeutiche adatte". Lo dice Magda Di Renzo, psicoterapeuta dell'età evolutiva e responsabile del servizio terapie dell'Istituto di Ortofonologia (IdO), al XVI convegno su 'Il processo diagnostico nell'Infanzia'.
"Diagnosi significa 'conoscere attraverso' e il 'processus' vuol dire andare avanti per conoscere attraverso fatti e atti. Ci siamo persi la ragione- denuncia la psicoterapeuta- e, nel frattempo, anche la componente soggettiva del sintomo che rischia di rimanere fuori".
Cos'è un sintomo? "Quando più segni cadono insieme formano il sintomo, che ha bisogno di una lettura che apra ad una complessità. Il sintomo- spiega Di Renzo- è rivelatore di una storia clinica e di potenzialità inespresse, anche perché il bambino non ha altro modo di esprimere il disagio se non manifestando sintomi riconoscibili dall'adulto. Una buona diagnosi- afferma- deve restituirci il bambino nella sua complessità".
Allora cosa succede nella pratica clinica? "La nostra pratica clinica è ancora incastrata in diagnosi categoriali- continua l'esperta- ma in età evolutiva questo approccio è un forte limite perché abbiamo linee di sviluppo che non necessariamente procedono parallelamente, e questo non necessariamente è segno di patologia. Inoltre, oggi lo studio della psicopatologia è inesistente".
Nella complessità della diagnosi "dobbiamo capire che la storia del bambino è la storia dell'ambiente e del suo corpo, altrettanto determinanti come i segni che vediamo. Il corpo del bambino ci racconta la sua storia. Permane una divaricazione tra sistemi classificatori derivanti dalla clinica e dalla ricerca. C'è una scissione- ricorda Di Renzo- e gli strumenti usati nella ricerca sono ignorati nella clinica. Ma la ricerca deve sempre portare qualcosa nella clinica affinche' quest'ultima rimanga un fatto vivo, che rispetti sia il rigore dell'evidence based che le individualita' del soggetto. Due dimensioni inestricabilmente legate".
In questa visione, "la diagnosi e' il primo e piu' importante atto terapeutico. Un atto complesso che non si puo' ridurre, soprattutto per l'infanzia, a una semplice elencazione di segni e simboli. Una stessa manifestazione puo' riconoscere motivazioni diverse, e in eta' evolutiva questo e' il problema. Abbiamo bisogno di strumenti precoci per comprendere queste linee evolutive- prosegue- affinche' si arrivi a diagnosi che non siano pero una 'precocizzazione' di diagnosi. Si rischia di aumentare i numeri- rimarca l'esperta- e nell'autismo, ad esempio, e' grave sovradiagnosticare cosi' come sottodiagnosticare. Dobbiamo valutare le differenti situazioni e vedere le diagnosi attraverso la terapia- spiega Di Renzo- servono idee e non ideologie".
Nell'attivita' di ricerca "bisogna riuscire a trovare i segni predittivi- conclude- e l'IdO nel suo lavoro coniuga sia la dimensione affettiva che cognitiva. Stiamo infatti portando avanti nell'ambito dei disturbi dello spettro autistico due ricerche, una sul processo di empatia - molto poco attenzionato, in quanto se ne da' per assodata l'assenza - ed una sulla capacita' di comprensione delle intenzioni dell'altro".
(Wel/ Dire)