In viaggio verso l'Ade, Dmt in reparto oncologia pediatrica
Riflessioni di Valentina Bottiglieri, psicoterapeuta Ido
(DIRE - Notiziario Psicologia) Roma, 9 giu. - Lavorare nel reparto di ematoncologia pediatrica può essere un vero e proprio viaggio verso l'Ade. Da dove parte? 'Probabilmente dalla nozione di rimozione. Se dici 'morire in ospedale' nessuno sente, puoi star sicuro che ci sarà un vuoto d'aria e si parlerà di altro'. Racconta alla Dire Valentina Bottiglieri, psicoterapeuta dell'Istituto di Ortofonologia (IdO), che ha fatto parte di un progetto di DanzaMovimentoTerapia (DMT) nel reparto di Oncologia pediatrica del Bambin Gesù, ideato da Marcia Plevin, psicologa e danzamovimentoterapeuta.
'La morte è il nucleo centrale che attiva un grande campo emotivo, ma il più delle volte si tende a scotomizzare questo vissuto. Nella nostra quotidianità, se ci troviamo a pronunciare questa parola subito pensiamo a qualcosa di così vitale che in qualche modo debba riempire il vuoto della parola. Si può oscurare la parola- precisa la psicologa- ma il vissuto fa parte di noi, perché la morte non è l'opposto della vita, fa parte di essa'.
Alexandra, in assenza della madre, mentre disegnava disse: 'Finalmente posso usare il nero!'. Era un colore bandito dalla madre, 'così come lo era il nostro intervento, perché riportava la vita laddove la madre, per non vedere la morte, rifiutava qualsiasi cosa, prediligendo l'immobilità delle cose. In reparto i genitori raccontano del figlio solo con termini che si riferiscono al passato- prosegue Bottiglieri- l'unico figlio che hanno è quello racchiuso in quel momento prima della diagnosi, in cui il figlio poteva accedere alla vita. Ora no, di fronte hanno solo la malattia che consuma e non più un figlio con quelle stesse risorse'.
La prima cosa che si ferma in ospedale è la comunicazione. 'Dinanzi alla paura le parole diventano non detti, e dinanzi alla morte la rimozione diventa la condizione necessaria per non disintegrarsi davanti al dolore. L'avvento della morte scardina ogni legame e relazione, la paralizza, la imbriglia in una inversione di ruoli che si fondono e confondono'.
Gioele ha tre anni e mezzo, urla e piange dal dolore per una medicazione; 'noi stiamo lavorando con il paziente accanto, e appena Gioele sente la musica si incuriosisce, guarda cosa succede e dice alla madre di ballare anche lei: 'Non ti preoccupare, vai io ti guardo da qui'. E' incredibile la capacità di un figlio di 3 anni di poter assicurare alla mamma che può allontanarsi, può divertirsi e lasciarlo solo, senza che lui e lei vadano in pezzi'.
Claudio Widmann sottolinea come 'l'arcano della morte, diversamente dagli altri, sia un arcano senza nome, compare solo il numero XIII. L'iscrizione del solo numero suggella che la morte coincide con una disidentificazione. La stessa immagine scheletrica che la chemioterapia porta con sé richiama al concetto di indifferenziato-evidenzia Bottiglieri- in cui i caratteri somatici e di genere si eguagliano tra loro'.
LA MORTE NON PORTA SOLO UN CAMBIAMENTO CORPOREO, È PROCESSO DI SMEMBRAMENTO DEI COMPLESSI PSICHICI - 'Non possiamo ritenere la morte come un semplice accadimento, è un archetipo e in quanto tale è una esperienza arcaica e primitiva. La morte è la rappresentazione di ogni esperienza di fine, dove l'angoscia di morte è paura del cambiamento. La paura della morte si infiltra in ogni passaggio maturativo che comporta la demolizione e l'abbandono di modalità preesistenti. Ci troviamo costantemente a fare i conti con ciò che è la fine- rammenta la psicoterapeuta- per quanto releghiamo questo sentimento di profonda fragilità a una fase terminale della vita o lo affidiamo a un nome arzigogolato di una malattia, ci confrontiamo sempre più spesso con la morte: la fine di un rapporto, la fine di una terapia, un fallimento per non avere raggiunto un obiettivo. Tutto ci riporta al confronto con il vuoto, con l'impossibilità di sottrarci alla sofferenza, alla possibilità di perder qualcosa'.
Bottiglieri ricorda: 'Spesso mi son confrontata con la necessità di affrontare anche io la morte attraverso strumenti magici, c'è la necessità di salvare qualcosa e fermare i vissuti della malattia. Lì è chiaro che ci si incastra sull'onnipotenza, perché diventa troppo doloroso ammettere che non si può fare sempre tutto. L'ombra ti inganna, ti fa credere che c'è un modo per ingannare il tempo. Ma ogni magia ha un prezzo, e in questo caso controllare il dolore non ti permette di riconoscere e ascoltare il piccolo paziente'.
RIPARTIRE DAL CORPO, STARE NEL CORPO E NEL RESPIRO, COME UNICO MEZZO PER CREARE IL RAPPORTO CON IL PAZIENTE - 'La relazione con il corpo permette di non ricorrere ad azioni salvifiche, ma di essere partecipe del viaggio, nel qui ed ora, che il paziente o noi stessi facciamo. E in questa danza la morte trova dei sinonimi come rinascita, rigenerazione. Per nascere deve morire qualcosa? La mitologia funeraria egizia ci insegna che la sopravvivenza dell'individuo doveva coincidere con la rivitalizzazione del corpo (da qui l'origine di tutte le pratiche post-mortem come la mummificazione). Reich sottolineava che la corazza caratteriale prendeva forma nel momento in cui la rimozione prevaleva nel funzionamento psichico. Vi erano una serie piuttosto limitata di schemi rigidi che governano opinioni, atteggiamenti, comportamenti. A questi atteggiamenti difensivi- fa sapere Bottiglieri- corrispondono una corazza neuromuscolare. Anche il corpo diventa un blocco, i muscoli sono rigidi, tesi al fine di evitare ogni piacere o emozioni. Il muscolo si contrae e resta contratto per impedire che il pensiero sia espresso mediante un'azione. Durante la lunga degenza in ospedale il bambino vive un sola dimensione corporea quella orizzontale, dimenticando che il corpo può muoversi nello spazio'.
QUANDO IL TRAUMA S'INSCRIVE NEL CORPO NON C'È NESSUNA INTEGRAZIONE TRA IL CORPO E IL VISSUTO - 'Si può d'altronde tenere sotto controllo la malattia solo se il nostro corpo perde la possibilità di interagire con l'esterno. Poter aprire uno spazio potenziale per riappropiarsi del proprio corpo e legittimare la propria forza vitale è l'intento che si prefigge la danzamovimentoterapia. Laddove non c'è un corpo non c'è un'identità, e lo stesso Winnicott sottolinea come il fallimento psiche-corpo porta all'istaurarsi di un falso Sè. L'esperienza di ospedalizzazione porta il bambino ad una regressione all'area presimbolica dell'esperienza, in cui la forma più primitiva del significato avviene attraverso l'organizzazione delle impressioni sensoriali epidermiche. La pelle- continua l'esponente dell'IdO- è il primo involucro della psiche e le sensazioni che il bambino avrà si basano sul dolore e sull'invasione. L'utilizzo del catetere venoso centrale evita innumerevoli microtraumi e consente di somministrare i farmaci a dosi più elevate, ma richiede un'accurata gestione e comporta esso stesso una perdita di integrità del proprio confine corporeo, accompagnata talora da sentimenti di vulnerabilità e/o di vergogna. La percezione che sia un buco nel petto sempre aperto è come dire che non c'è più un limite tra ciò che è interno e ciò che è esterno. La pelle è un colabrodo e il rischio è che in una fase evolutiva i sintomi della malattia diventino i simboli dell'identità'.
Riportare una ritmicità e periodicità dei vissuti sensoriali permette di sentire nuovi limiti corporei in cui identificarsi. 'Allargare le braccia, lanciare una sciarpa da un lato all'altro della stanza- chiosa la terapeuta- serve ad estendere la capacità del bambino di attraversare con il corpo differenti piani spaziali, dal centro alla periferia, oltre a riattivare la memoria muscolare relativa alla capacità di muoversi, giocare e ballare .
Anche se la malattia è presente, i bambini possono sperimentare 'altro' dalla malattia e scoprire l'immagine di un corpo in movimento e creativo attraverso uno spazio transizionale condiviso'.
NON C'È UNO SPAZIO DI ATTESA ALLA MORTE MA C'È UN QUI E UN ORA DA COSTRUIRE E TRASFORMARE - 'Un oggetto, l'alternarsi del respiro spesso ci fa accedere in quello spazio transizionale in cui gli opposti convivono in un dialogo continuo dove vita e morte, affermazione del Sé/non identità si mescolano insieme e permettono di restituire al paziente la fiducia nel proprio corpo e quindi nel proprio essere. Soltanto nel momento in cui verrà creata una nuova esperienza sensoriale che integra anche il vissuto di impotenza e distruttività sulla superfice corporea traumatizzata, potremmo creare i prodromi per ciò che diventerà un nuovo senso dello spazio corporeo, psichico e relazionale.
Come uno sciamano che entra in contatto con le forze cosmiche del mondo e degli uomini per ripristinare gli equilibri precedentemente alterati, il viaggio in reparto ti porta a trasformare il tuo corpo in un setting terapeutico. Solo attraverso la psicosi, intesa come frammentazione e smembramento di Sé non solo psichico ma anche corporeo, lo sciamano riesce a restituire una nuova integrazione del tutto e a riportare indietro l'anima che la malattia porta via'.
CHI HA IL RUOLO DELLO SCIAMANO? - 'Noi terapeuti o il flusso psichico dei pazienti con cui ci confrontiamo?- chiede Bottiglieri- L'archetipo del guaritore ferito racchiude in sé la doppia dimensione della cura, e ricorda a noi terapeuti che nella relazione terapeutica il paziente è il detentore dei vissuti che porta in quel momento, ma di cui non è l'unico portatore. Il terapeuta non è colui che guarisce, ma colui che favorisce e testimonia l'attivazione del polo guaritore, insito nel paziente. La danza movimento terapia ha facilitato per me l'accesso a questo spazio transizionale sospeso e trasformativo: l'essere nel corpo, approfondire la presenza conscia dell'incarnato nella relazione terapeutica. Essere un compagno di viaggio. Guarire è un principio di reciprocità, è la capacità di dare e ricevere allo stesso modo, la capacità di entrare in contatto con l'altro. L'empatia e la compassione sono gli strumenti che mi hanno accompagnato in questo viaggio. La grande dignità che i bambini hanno di mettersi in contatto con la parte più intima di sé rende questo viaggio nell'Ade e nella sofferenza una piccola magia. E il rischio è quello di colludere con una dimensione in cui non c'è tempo, non c'è tempo! E invece- conclude la psicoterapeuta dell'IdO- anche laddove non c'è tempo si può stare'.
(Wel/ Dire)
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