Don Marco Campedelli al seminario Arpa del 18 aprile sul tema
(DIRE - Notiziario Psicologia) Roma, 9 giu. - Sono tornato a vedere le metafore, le piccole omelie gli appunti, gli schizzi presi e stesi proprio come lenzuoli sul filo per la morte e i funerali di molte persone in questi anni. Sono molti, davvero. La sensazione, nel rovistare in questa casa della memoria, una casa di carta, un corpo di scrittura, è quella di trovarmi davanti a un piccolo romanzo. Trama, personaggi, snodi, capitoli di vita, immagini, intrecci. La morte mi sembra da questo angolo di carta, una grande fucina di vita. Un laboratorio in cui sono appesi gli arnesi della vita. La falce che odora ancora di erba fresca. La rugiada dell'alba ancora intatta. Sono molti i personaggi di questo romanzo. Le situazioni più diverse: dal vecchio partigiano che voleva 'un prete di sinistra' al giovane che si impicca e viene calato sotto i miei occhi dal suo patibolo come il Cristo dalla croce e posto nel sudario.
Dalla donna che ha camminato sul filo di una fede antica, che sa di pace e del Dio di sempre, alla donna che plasma la creta e vuole un funerale aperto come un campo. Fuori dalla chiesa: 'Perché io credo in Dio, ma Dio è fuori con i piedi sull'erba'. Ci sono le nostre morti, quelle che abbiamo scritto nel nostro corpo. La morte di mio padre, ad esempio, che ho sentito come una morte anche mia, una parte di me che muore. E poi vi sono le morti degli altri. Spesso l'incontro con la morte avviene anche sul filo, al limite della vita.
DIALOGHI IN LIMINE MORTIS - Possono avere il sapore di una consegna. La stesura dell'ultimo capitolo del proprio libro, della propria storia. Ho vissuto molti incontri in limine mortis. Diversi, per intensità, per consapevolezza, per comunione o solitudine. Ho sempre vissuto questi incontri con un certo pudore. Perché la morte ti spoglia di tutto. E tu stai davanti a chi nudo nel proprio essere sta partendo per il viaggio.
Ho sempre avuto la percezione che la storia di chi si racconta in limine mortis sia racchiusa dentro il proprio corpo.
Esattamente come fosse un albero. Vi sono incisi nel corpo segni, come alfabeti da decifrare. Entrare dentro questo racconto in limine mortis è accettare di entrare come in un bosco. Stare in silenzio. Se il filosofo Heidegger diceva che 'l'uomo è l'essere per la morte', ogni volta che s'incontra qualcuno che muore si ha la netta impressione di incontrare qualcuno/a che è 'l'essere per la vita' e che la vita, tutta, si concentra come nel bicchiere d'acqua messo li sul comodino.
Ernest Bloch (lo riporta Magris nel suo 'L'infinito viaggiare') parla in Principio speranza di Heimat 'la patria, la casa natale che ognuno nella sua nostalgia crede di vedere nell'infanzia, si trova invece alla fine del viaggio. Quest'ultimo è circolare; si parte da casa, si attraversa il mondo e si ritorna a casa, anche se una casa molto diversa da quella lasciata, perché ha acquistato significato grazie alla scissione originaria. Ulisse torna ad Itaca, ma Itaca non sarebbe tale se egli non l'avesse abbandonata per andare alla guerra di Troia, se egli non avesse infranto i legami viscerali e immediati con essa, per poterla ritrovare con maggiore autenticità'.
SPESSO HO INCONTRATO PERSONE ALLA FINE DEL VIAGGIO - Non sempre le condizioni lo permettono ma a volte si intuisce che la morte si rivela come ultima scrittura della vita. Il proprio morire dice molto ma almeno qualcosa del proprio vivere. Spesso chi muore consegna il suo racconto. Un racconto forse trasfigurato, oppure purificato, altre volte chissà idealizzato, tuttavia l'ultima stesura del proprio romanzo. E quando avviene è lo stesso viaggiatore in limine mortis che ti conduce, un po' come Virgilio con Dante, nel suo mondo. Se accetti di entrare in quel racconto, entri in un mondo dove il tempo si contrae. E se tu dovessi prendere di volta in volta l'andatura o il passo del racconto, assumi le diverse stature della vita, la qualità delle stagioni, avverti l'importanza degli incontri che hanno segnato il cammino, il viaggio.
GIOVANE PRETE ERO SPESSO IN COMPAGNIA DEI VECCHI - Mi aspettavano al bar per una partita a carte. Poi raccontavano della guerra: quante volte sono partito per la guerra. Ho camminato sulle strade ghiacciate delle Russia. Quante volte ho messo le loro scarpe, i loro cappotti, i capelli per ripararmi dal freddo. Ho vissuto abbracci che non ho mai dato, figli che non ho mai avuto. Sono entrato nei loro racconti come si entra in un tempio. Ho levato le scarpe. Scalzo. Mi sono inginocchiato al loro cuore.
Quando uno di loro moriva c'era quel rito di ritrovarsi a mettere insieme i tasselli di una storia. Si faceva insieme la predica. Così si scriveva sgrammaticata, in dialetto, come si scrive con il cuore. Erano vite vissute, erano vite compiute. In questo mi sembrano vere le parole di Maria Zambrano: noi nasciamo a metà, la vita ci serve per nascere del tuttoà In quel nascere del tutto c'è la possibilità di raccontare del proprio compimento. Non è difficile associare questo compimento al 'tutto è compiuto' di Gesù sulla croce. Che in quel caso suona come compimento delle Scritture, delle profezie. Mentre in questi compimenti sembra rivelarsi e raccontarsi il compimento del proprio viaggio, del proprio corpo, del proprio destino.
IL SILENZIO DAVANTI AL CORPO DEL MORTO DIVENTA QUASI LA ECO DEL SUO RACCONTO. E quello che ha consegnato a te, e una parte del suo spirito. Un po' come Eliseo che getta sul profeta Elia il suo mantello.
Questo racconto compiuto spesso trova un altro capitolo nella narrazione che avviene con le persone più care di chi muore. È un'ulteriore parte del romanzo. Gli stessi 'personaggi' di quella originale stesura, o almeno alcuni di loro, in carne ed ossa prendono vita. Questo momento della 'memoria condivisa' diventa una parte importante del viaggio. Chi prima si era raccontato, viene ora raccontato dagli altri.
Vedo tante immagini intorno.
La donna di Bruno aveva voluto esaudire il suo ultimo desiderio: 'non portami in chiesa' fammi un funerale qui nella corte. Chiama gli amici, suonate e ballate intorno alla mia bara. E i bambini che appendano i loro disegni stesi sul filo: Il vento li farà parlareà e se vuoi un prete, chiamo uno che ami la vita più di Dioà Non so perché mi ritrovai in quella corte. Ma tutto mi sembrò così vivo: perfino il morto. La postura delle cerimonia non c'era. I bambini correvano nella corte, il vento alzava i loro disegni verso il cielo. E poi quel pane distribuito tra tutti e quel vino buono, sincero come un abbraccio. Mi sembrava che lì ci fosse la messa di Gesù. Che ne avevano smarrito i colori, il sapore del pane, il gusto del vino. Lessi un vangelo. Lo lessi adagio con la sensazione di leggerlo per la prima volta. Forse doveva essere così la nostra messa. I nostri funerali facevano morire. Questo in mezzo alla corte faceva vivere. Non era necessario pensare alla risurrezione, perché tutto risorgeva intorno: gli alberi dei ciliegi, il canto degli uccelli, le voci dei bambini.
E poi quando tutti cominciarono a danzare, sembrava che ringiovanissero. Che la vita tenesse ognuno alla cinta e accompagnasse nella danza. Perfino le vecchie ora sembravano bambine. Nel raccontare si creano intrecci narrativi che sono poi esiti di intrecci esistenziali. Di vissuti intensi, talora problematici, qualche volta drammatici. I personaggi che si muovono su questo palcoscenico della morte assumono diversa consistenza e colore. Talora corrispondano ai personaggi del racconto originario. Altre si discostano, assumono altre posture, altre maschere. Tuttavia ciò che sorprende, seppure sembra essere così sempre in qualche misura, è il peso, lo spazio, ora la bellezza ora il dramma, che l'altro lascia nella vita di chi rimane.
Il raccontarsi rimette in vita chi è morto, e permette per quel tempo sospeso di tornare sulla scena della vita. Raccontare a se stessi o agli altri coinvolti qualcosa, è come creare ancora una volta tessiture di racconto, di narrazione. Continuare in qualche misura il romanzo.
Lo spazio del racconto condiviso torna ad essere spazio in cui riprendere i fili della storia, spazio in cui dire a colui che è morto, la parola rimasta nella gola, il gesto non fattoà l'abbraccio appena abbozzato.
Il rito a questo punto diventa un modo per 'mettere in scena' la morte e dunque la vita.
C'è un passaggio dalla parola al corpo. Il corpo del morto che ritorna dentro lo spazio, prende parte, seppure silente al convenire della comunità. E in questo convenire tutti possono in qualche forma ri-agire.
I riti come sappiamo hanno la funzione da un lato di esprimere e dall'altro di contenere. Sono terra di espressione e al contempo di protezione. Qui sorge l'interrogativo se il rito con la sua potente carica simbolica sia ancora in grado di svolgere questa funzione. Le religioni, di fatto spesso le chiese, sono state per secoli il luogo dove si compiono i riti. Oggi ci si può chiedere se sono sempre all'altezza del compito loro affidato. IL RAPPORTO MITO-RITO, RACCONTO - RITO - Le chiese spesso hanno perso il contatto con l'invisibile, rischiano di gestire la morte come un fatto di 'routine'. Ma la morte non sopporta questo, perché è sempre un fatto eccedente che stappa il velo del tempio. Se le chiese spesso sono inadeguate, difficilmente si trovano luoghi altri dove affidare ad un rito la possibilità di ri-dire la morte. Non ci sono spesso alternative a riti religiosi. Non mancano rituali messi insieme da agenzie funebrià ma che mostrano spesso solo un paravanto, non hanno il retroterra, non conoscono la terra dei simboli. Sono solo un apparente cosmetico per la morte.
Quando mi trovo a vivere il rito, della persona prima incontrata che ha consegnato il suo racconto, la stessa intorno alla quale poi altri hanno 'in sua memoria' raccontato; lì avviene in un certo senso una forma di consegna del racconto. Il romanzo raccontato e rivisto viene consegnato alla comunità. Torna a circolare nelle trame delle relazioni. Diventa un racconto in qualche modo pubblico. Tale racconto non ha nessuna pretesa di completezza. Spesso dialoga con un racconto antico, una parola sacra. Eppure quel racconto dentro lo spazio del rito, restituisce, rimette in piedi colui o colei che sono morti, talvolta li riscatta, li libera dal senso dell'oblio. Vi è poi infine una parte invisibile che rimane dentro. Chi entra a contatto con l'invisibile non può non esserne in qualche modo trasformato. Le persone accompagnate in limine mortis rimangono presenze.
COMPRESENZE TRA VIVI E MORTI - Aldo Capitini parlava di compresenze tra vivi e morti. C'è come un intreccio che non si scioglie, che rimane. Questo che nella tradizione cristiana viene chiamata Communio Sanctorum può essere ritradotta in modi diversi, ma costituisce una possibile dimensione altra, che allunga lo sguardo e allarga le dimensioni del cuore. Mi è capitato ancora che qualche donna, moglie, sorella mi dica se può darmi qualcosa di chi è morto: 'prenda questa giaccaà', 'questa camicia è per leià', se poi sono stati amici 'prendi il suo cappello gli piacerebbe tanto che tu lo mettessià'.
Quando morì il mio vecchio Maestro delle elementari, la moglie mi regalò la sua matita consumata e il libro della Divina Commedia tutto sottolineato dagli appunti del Maestro. Tanti che ho accompagnato continuano a camminare come me. Li sento nell'aria. Non occorre mettere la giacca o il cappello. Nemmeno prendere in mano il Paradiso di Dante e stringerlo al cuore. Sono dentro i miei passi. Il mio riso e le mie lacrime. Li porto e mi portano. Custodisco i loro segreti e loro i miei. Quando arrivai in quella casa piena di polizia, L. si era da poco impiccato.
Aveva accesso la sua musica preferita e poi zacà un colpo nell'aria. Venga padre, mi disse il brigadiere indicandomi le scale. E i genitori dietro a me vennero con dolcezza e determinazione bloccati: no voi no, non adesso. Solo con i poliziotti vidi L. calato dalla croce. Cantavo sommesso uno Stabat mater e mangiavo giù lacrime. Ci vuole un cuore troppo grande per accogliere un figlio calato dalla croceà Ho attraversato la morte di molti. Ho sepolto intellettuali e barboni. Ho portato all'obitorio i vestiti di chi non li aveva.
E alla domanda 'parente'? ho detto sì, perché come davanti alla morte si imparenta à Ho sepolto anche dei miei studenti. Li ho portati sulle spalle insieme ai loro compagni. Mi sono sentito in colpa per non essermene andato prima di loro. Se potessi porterei a tutti questi amici dell'ultima ora, una rosa rossa. Penso a quella corte, alla danza, al vino buono e al pane fragrante. Penso ai disegni dei bambini che sono portati in alto dal vento. E credo infine che dentro tanto dolore l'amore rimane. Un amore rosso come il vino, come la rosa, come un cuore che batte e rimane vivo.
(Wel/ Dire)